mercoledì 29 maggio 2013

  Portai ad Anita il vassoio con la colazione. Era sveglia, gli occhi sbarrati che fissavano la finestra, le mani abbandonate lungo il corpo. Appoggiai la 38 e la radio sul comodino e le versai il caffè senza che lei facesse il minimo movimento. Una bambina intrappolata in uno stupido gioco da grandi. Una bambina dai fianchi ampi e dal seno abbondante. Certi giovani erano come se fossero già vecchi, in anticipo di secoli. Secoli che per lei correvano veloci come anni luce. Parlò senza muovere la faccia.
  - Credi che finirà?
  - In un modo o nell'altro, sì.
  - Stanca... sono stanca...
  Bevve un sorso di caffè, e mi sorrise con aria assente e confusa.
  - Sono così stanca...
  Mi stropicciò il collo della camicia tra le dita.
  - E quando sarà finito, staremo insieme?
  - Può darsi...
  - Non ti capisco, sai?
  Annuii e levai il vassoio. Lei mi fece posto e mi tenne tra le braccia. Mi dovetti assopire un momento. Quando riaprii gli occhi, si era tolta la camicia da notte e mi stringeva contro il seno, come una piccola madre dei popoli. Mi guardava. Pioveva sul tempio. Aveva un'espressione remota, dura e penetrante. Già vista su altri visi, per le strade e nei porti, si torna sempre là, le strade, i porti e la pioggia, gli usci socchiusi e i neon cruenti e spettrali, i marciapiedi senza fondo, le raffiche di steel guitar sparate su un fianco, a spazzare via tutto, i canali di scolo e le stanze disseminate di detriti e di vetri in frantumi, di lamenti e di spade, di chiazze di sangue e fango, di lampi elettronici - no future - e di facce livide... difficile trovare la luce. Racconti di morte tranquilla e di obitori stracolmi. Cortei di Cadillac e giovani visi esangui, abiti per diecimila franchi e ascessi purulenti su braccia dalle vene indurite, dalle ossa di alluminio, dai tendini di vetro... Un giorno o l'altro, si deve scegliere da che parte stare e non muoversi più. Io avevo scelto la mia.
  Ma confesso che la cosa non mi era di alcun conforto.


(Hugues Pagan, In fondo alla notte, 1986)
  - E lei da che parte sta?
  - Se non sbaglio mi ha già rivolto questa domanda quando eravamo a stomaco vuoto. La mia risposta non è cambiata: dalla mia. Non c'entro niente con questo merdaio, anche se le apparenze sono tutte contro di me. Non rinnego i miei precedenti né il mio passato, ma ho chiuso. Certo non per nobiltà d'animo, intendiamoci. Ciò che vedo e sento non mi piace. Ho servito la legge e l'ordine, in vario modo... fino al giorno in cui mi sono reso conto che stavo sguazzando nella merda e che ben presto ne avrei avuto la bocca piena, e allora l'ho chiusa. L'ordine morale mi disgusta. I faccendieri pure. Quanto a intrallazzi e porcherie, ne so più del cane di una prostituta. Per quel che mi riguarda il divertimento è finito.


(Hugues Pagan, In fondo alla notte, 1986)

martedì 21 maggio 2013

  Achille mi inchiodò per buona parte del pomeriggio. Era stato professore di lettere, giornalista e addetto parlamentare, vagabondo, imbianchino ed elettricista. Pesava più di cento chili, e solitamente si cadeva nell'errore di scambiarlo per un bonaccione: aveva cacciato via non pochi mister muscolo a colpi di stomaco, all'epoca in cui faceva il buttafuori a Galpi. Aveva delle manacce pelose con le dita tozze, e se ne serviva per eseguire delle pregiate miniature in stile Rousseau il Doganiere, ma la sua vera natura traspariva per lo più nei disegni iperrealisti che oscillavano, in funzione del suo umore, tra Hans Bellmer e Aslan. Non aveva che una sola e autentica passione, insaziabile e divorante: le donne. Abitava in un loft vicino all'azienda del gas e possedeva la seconda collezione di gialli della città. La prima era la mia. Parlammo di Eliot, che ambedue consideravamo un autore di culto, di Rilke, di Heidegger e della nuvola radioattiva fuggita dall'Ucraina che aveva fatto una capatina dalle nostre parti.
  - Puttana miseria, - esclamò Achille. - Da voi c'è davvero un gran bel pezzo di carrozzeria. La bambola del centralino... - sorrise con aria sognante. - Perdio, come me la pianterei volentieri sul pennello. Tu no?
  - La bambola in questione misura un metro e settantadue...
  - E scommetto che la tua arma prediletta non è il pennello. - Versò a entrambi un distillato di pera, di quello non proprio in regola con il fisco. Ancora un bicchiere, e il mio pilota automatico avrebbe dichiarato forfait. Piantò i gomiti sul tavolo, mettendo in risalto i suoi muscoli da lottatore. I suoi polsi erano il doppio dei miei. - Cavallier, ma che cavolo ci fai tu, in questo bordello?
  - Sto aspettando che suoni la campanella.

(Hugues Pagan, In fondo alla notte, 1986)  

venerdì 10 maggio 2013

  Prese una sigaretta dal pacchetto di Eddie e l'accese con un movimento sciolto e aggraziato del polso e del braccio. Poi spostò il fiammifero da una mano all'altra lasciando che la fiamma si spegnesse lentamente a mezz'aria e afferrando alla fine con precisione il fiammifero bruciato fra pollice e mignolo.
  «Cosa ne dici della scelta di tempo?» gli chiese, come se lui non avesse mai visto prima, quel giochetto.
  Gliel'aveva mostrato almeno un miliardo di volte. Lei amava esibirsi in quei piccoli trucchi. E capitava spesso che all'Hut's spostsse i tavoli per fare un po' di spazio e si mettesse a fare flip-flap, salti mortali e ruote per dimostrare che era ancora in forma e non aveva perso il ritmo, la coordinazione e i riflessi straordinari. Intorno ai vent'anni era stata una danzatrice acrobatica ben al di sopra della media.
  Ora, a trentadue anni, era ancora una professionista ma in un campo del tutto diverso. Si trattava di acrobazie orizzontali eseguite con maestria sul materasso, il corpo in affitto per tre dollari a spettacolo. Nella sua stanza al secondo piano dava ai clienti molto più di quanto spendevano.

(David Goodis, Sparate sul pianista, 1956)

lunedì 22 aprile 2013

  «Danny. Aspetta un momento, piccola.»
  Fu il modo in cui pronunciai l'ultima parola. Un modo in cui non avrei mai pensato di poterla dire. A lei. Si irrigidì, un piede su uno scalino, un piede su un altro,  i calzoncini tesi sulle cosce. Poi... poi mosse la testa e mi guardò da sopra la spalla.
  «Co... cosa?» balbettò. «Come mi hai chiam... cosa hai detto?»
  «Niente» dissi. «Immagino che... Niente.»

  «Dimmi, Rags. Dimmi che cosa vuoi.»
  «Voglio» accennai. «Voglio...» 
  L'impossibile, ecco cosa volevo. Il non esistente. Quello che non sarebbe mai stato. Lo volevo e non lo volevo, perché una volta che l'avessi ottenuto non avrei avuto più nulla per cui vivere.
  «Voglio che tu mi tolga quel culo dalla faccia» le dissi. «E in fretta. Prima che te lo rompa a calci.»

(Jim Thompson, Vita da niente, 1957) 

martedì 16 aprile 2013

  I due piedipiatti che stavano trascinando fuori il poveraccio si fermarono come stecchiti. L'altro, intento a togliere le macchie di sangue dalla sedia, rimase con la spazzola sospesa sul vimini e trattenne il fiato. Nessuno aveva mai osato parlare a Dilwick in quel modo. Nessuno: dal pezzo grosso più influente dello stato al gangster più strafottente della Repubblica Stellata. Nessuno: perché tutti sapevano che sarebbe stato capace di farli a pezzettini e anche di divertircisi. Perché Dilwick era fatto così: era la più lurida carogna, il più infame piedipiatti specialista di pestaggio e di fracassamento crani che esistesse sulla faccia della terra. Era un duro tremendo, uno sporco essere che non aveva paura di niente e di nessuno. Se avesse potuto, a colazione e a cena, invece di farsi fare il suo solito filetto al sangue, il sangue lo avrebbe succhiato direttamente dalla faccia di una delle sue vittime sfigurate. Questo la gente lo sapeva. E così si spiega come nessuno gli avesse mai parlato a quel modo. Mi correggo: nessuno a eccezione del sottoscritto.
  Perché anch'io sono fatto come lui.

(Mickey Spillane, Piccolo mostro, 1966)
  Quando tornò aveva indosso una ragnatela e nient'altro.
  «Non sarai mica troppo stanco stasera, no?»
  «Stasera no di certo.»
  Si sedette accanto a me. «Credo che la volta scorsa tu abbia finto. E dopo tutta la fatica che avevo fatto!»
  La sua pelle era soffice e vellutata sotto la ragnatela. Una vena le pulsava sulla gola. Seguii con gli occhi i contorni delle sue spalle e, giù giù, osservai tutto il suo corpo. Dei seni impertinenti che sembravano prendersi gioco della mia precedente esitazione, uno stomaco piatto che sembrava attendere un tocco per dar fuoco alle polveri e un paio di cosce le quali di tutto avranno avuto bisogno tranne che di un pezzo di stoffa che le coprisse.
  Avevo difficoltà ad entrare in azione. «Bisognava proprio che fossi stanco.»
  Incrociò le gambe, la ragnatela si divise in due. «O matto da legare,» aggiunse lei. 


(Mickey Spillane, Piccolo mostro, 1966)   

sabato 16 marzo 2013

  «Non può essere andata così per Manu. Non c'entrava niente con queste cose. Voleva scappare, una volta portato a termine il colpo. Lo aveva detto a Batisti. Vedi, Batisti, mi ha fregato su tutta la linea. Tranne che su questo. Voleva bene a Manu. Sinceramente».
  «Sei troppo romantico, tesoro. Ne morirai».
  Ci guardammo, stanchi e frastornati.
  «Casino totale, vero?».
  «Proprio così, bella mia».
  Ero in un merdaio. In mezzo ai casini degli altri. Solo una banale storia di delinquenti. Un'altra storia, e senz'altro non l'ultima. I soldi, il potere. La storia dell'umanità. E l'odio del mondo come unica trama.

(Jean-Claude Izzo, Casino totale, 1995)  
  L'impressione di freschezza era svanita. Avevo voglia di andarmene, di essere sulla mia barca, al largo. Il mare e il silenzio. L'umanità intera mi usciva dagli occhi. Tutte quelle storie non erano altro che la parte più infima della schifezza del mondo. Su grande scala: guerre, massacri, genocidi, fanatismo, dittature. C'era da credere che, venendo al mondo, il primo uomo si era sentito talmente fregato che nutriva solo odio. Se Dio esiste, siamo dei figli di puttana.

(Jean-Claude Izzo, Casino totale, 1995)

sabato 9 marzo 2013

  Marsiglia non è una città per turisti. Non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere, violentemente. Solo allora, ciò che c'è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l'eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere.
(Jean-Claude Izzo, Casino totale, 1995)