lunedì 22 aprile 2013

  «Danny. Aspetta un momento, piccola.»
  Fu il modo in cui pronunciai l'ultima parola. Un modo in cui non avrei mai pensato di poterla dire. A lei. Si irrigidì, un piede su uno scalino, un piede su un altro,  i calzoncini tesi sulle cosce. Poi... poi mosse la testa e mi guardò da sopra la spalla.
  «Co... cosa?» balbettò. «Come mi hai chiam... cosa hai detto?»
  «Niente» dissi. «Immagino che... Niente.»

  «Dimmi, Rags. Dimmi che cosa vuoi.»
  «Voglio» accennai. «Voglio...» 
  L'impossibile, ecco cosa volevo. Il non esistente. Quello che non sarebbe mai stato. Lo volevo e non lo volevo, perché una volta che l'avessi ottenuto non avrei avuto più nulla per cui vivere.
  «Voglio che tu mi tolga quel culo dalla faccia» le dissi. «E in fretta. Prima che te lo rompa a calci.»

(Jim Thompson, Vita da niente, 1957) 

martedì 16 aprile 2013

  I due piedipiatti che stavano trascinando fuori il poveraccio si fermarono come stecchiti. L'altro, intento a togliere le macchie di sangue dalla sedia, rimase con la spazzola sospesa sul vimini e trattenne il fiato. Nessuno aveva mai osato parlare a Dilwick in quel modo. Nessuno: dal pezzo grosso più influente dello stato al gangster più strafottente della Repubblica Stellata. Nessuno: perché tutti sapevano che sarebbe stato capace di farli a pezzettini e anche di divertircisi. Perché Dilwick era fatto così: era la più lurida carogna, il più infame piedipiatti specialista di pestaggio e di fracassamento crani che esistesse sulla faccia della terra. Era un duro tremendo, uno sporco essere che non aveva paura di niente e di nessuno. Se avesse potuto, a colazione e a cena, invece di farsi fare il suo solito filetto al sangue, il sangue lo avrebbe succhiato direttamente dalla faccia di una delle sue vittime sfigurate. Questo la gente lo sapeva. E così si spiega come nessuno gli avesse mai parlato a quel modo. Mi correggo: nessuno a eccezione del sottoscritto.
  Perché anch'io sono fatto come lui.

(Mickey Spillane, Piccolo mostro, 1966)
  Quando tornò aveva indosso una ragnatela e nient'altro.
  «Non sarai mica troppo stanco stasera, no?»
  «Stasera no di certo.»
  Si sedette accanto a me. «Credo che la volta scorsa tu abbia finto. E dopo tutta la fatica che avevo fatto!»
  La sua pelle era soffice e vellutata sotto la ragnatela. Una vena le pulsava sulla gola. Seguii con gli occhi i contorni delle sue spalle e, giù giù, osservai tutto il suo corpo. Dei seni impertinenti che sembravano prendersi gioco della mia precedente esitazione, uno stomaco piatto che sembrava attendere un tocco per dar fuoco alle polveri e un paio di cosce le quali di tutto avranno avuto bisogno tranne che di un pezzo di stoffa che le coprisse.
  Avevo difficoltà ad entrare in azione. «Bisognava proprio che fossi stanco.»
  Incrociò le gambe, la ragnatela si divise in due. «O matto da legare,» aggiunse lei. 


(Mickey Spillane, Piccolo mostro, 1966)