lunedì 24 settembre 2012

  La serratura della camera di Badoux meritava appena quel nome. Non più complicata di un elettore medio, non era rinforzata da alcun catenaccio e praticamente scattò da sola di fronte al mio taglierino-apriscatole. Avrei preferito più resistenza. Apparentemente Badoux non temeva né ladri né indiscreti. Un animo tanto puro era un cattivo segno per me.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Odette Larchaut ci aspettava in un immenso salone, con il soffitto molto alto. Per ragioni di armonia, al piano inferiore, occupato da una ditta commerciale, non doveva essere peggio. Il mobilio senza pretese strideva con le sculture d'epoca, ancora intatte in diversi angoli della stanza, negli intarsi lignei sopra le porte, in particolare, e con i dipinti del soffitto. Questi ultimi - ignoravo se fossero manierismi di maniera - imploravano di essere restaurati al più presto. Erano pericolosamente screpolati e, per tutto il tempo che rimasi nella sala, temetti che un pezzo di chiappa della divinità tanto callipigia quanto mitologica che planava sulle nostre teste finisse dentro il mio aperitivo, come una scorza supplementare.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Si è rivestito, ma con i vestiti di Zardo.
  Sudato, teso nello sforzo, sta cercando di far stare tutto il cadavere dentro la valigiona. Sbuffa. Manda dentro una gamba ed esce un braccio, manda dentro il braccio, ed esce la testa. Sembra una gag.
  Poi finalmente tira una delle cerniere. Si mette in ginocchio sulla valigia e tira l'altra cerniera, che scorre a fatica, finché non viene bloccata da una mano che fuoriesce.
  Sfinito, si alza in piedi, guarda la valigia, ringhia.
  Torna a inginocchiarsi accanto, cerca inutilmente di cacciare dentro la mano, non ce la fa.
  Ci pensa per un po', sospirando. Poi assume un'espressione decisa.
  Apre l'anta di un armadio a fianco dell'entrata del bagno. Gli cadono addosso con fragore attrezzi, scope, cianfrusaglie.
  Si ritrova seduto a terra, con la testa alta ad ascoltare se succede qualcosa dopo il fracasso.
  Poi diventa cattivo.
  «Beh? Stavolta non li hai sentiti i rumori? Prova a richiamarli, i poliziotti, vecchia troia vergine, prova!»
  Si alza. Poco dopo eccolo in piedi, con un seghetto ad arco in mano.
  Di nuovo inginocchiato sulla valigia. Sta per segare la mano. La lama si avvicina lentamente al polso. Poi giù, forte.
  Uno spruzzo di sangue gli arriva in faccia.

(Tiziano Sclavi, Nero., 1992)

giovedì 20 settembre 2012

  Raccolsi il pacchetto da terra e lo portai fino alla scrivania, dove mi sedetti.
  «Non è così?».
  Era una busta rosa, barrata da un'iscrizione blu pervinca: «Rosyanne, calze, biancheria intima, rue des Petits-Champs». A dieci metri dal mio ufficio, andando verso avenue de l'Opéra. Un'elegante vetrina, provocante e calda, con tutto ciò che ci vuole per alimentare i sogni degli scapoli e anche quelli degli sposati. Fantastico.
  «No, non è così», protestò lei con veemenza. «E tanto meglio se l'ho incontrata. Così posso dirle tutto. Togliermi il peso, sperando che serva a calmarmi...».
  Aprii anche quella busta e tirai fuori un paio di mutandine aracnee di nylon nero bordate di pizzo.
  «...È da due giorni che non vivo più, io... Lei non mi ascolta...», gemette.
  «Si sbaglia. Riesco benissimo a fare due cose contemporaneamente...». (Spiegai l'indumento di biancheria e lo esaminai tendendo le braccia). «...Ma che graziose», commentai, con le ridicole smancerie di un commesso viaggiatore salace. «L'inquietudine di cui parla non le impedisce comunque di pensare a questi fronzoli, eh?».
  «Oh! Ma cosa significa?...». (Ebbe un gesto di impazienza). «...Una donna è sempre una donna. Non so nemmeno perché ho acquistato quegli slip...».
  «In ogni caso, sono molto graziosi... molto suggestivi... devono starle come un guanto».
  Le guance le si arrossarono. Esplose:
  «Non le permetterò di abusare della situazione. Ne ho abbastanza, capisce? Abbastanza! Abbastanza!...». (Battè i piedi). «...Siete tutti uguali, tutti villani, sia che vi chiamate Cabirol, Burma o non so cos'altro. Sporchi villani disgustosi. Io...».
  Stava soffocando. Tremava come una foglia. Da rosso che era, sotto il trucco, il suo colorito passò al bianco gesso. Gli occhi le si rivoltarono. Emise sottili gridolini di lamento. Scivolò dalla poltrona...
  Andai a cercare l'infermiera:
  «Dammi una mano, Hélène, è appena svenuta...».
  Hélène, che faceva finta di battere a macchina, interruppe il suo lavoro simulato e fissò lo sguardo sulla mia mano destra:
  «Forse non sopporta che qualcuno le tolga gli slip», insinuò.
  Imprecando, feci sparire la biancheria intima.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  «Andiamo nel mio ufficio», dissi.
  «Ufficio?».
  «Bisognerà pur aspettare la fortuna da qualche parte. Ho preso in affitto un ufficio a questo scopo. La maggior parte del tempo lo passo a dormirci. È proprio qui di fronte, basta attraversare la strada. Lì saremo soli, nessuno ci disturberà».
  Le ripresi il braccio. Scosse la testa e si lasciò guidare senza opporre alcuna resistenza.
  Salimmo le scale in silenzio. Almeno sul capitolo gambe non mi ero sbagliato: erano molto belle.
  Quando, arrivati al secondo pianerottolo, vide sulla porta la placca che indicava il tipo di lavoro a cui ci dedicavamo lì dentro, si irrigidì e fece un passo indietro:
  «Poli... lei è un poliziotto?»
  «Privato. Quindi non troppo importante. Non abbia paura».
  Mi feci da parte per lasciarla passare. Superando la soglia dell'agenzia Fiat Lux, mormorò una frase indistinta. Una preghiera, forse. Ai nostri giorni, la religione si insinua nei posti più bizzarri e la si adatta a tutte le salse, spesso le peggiori. Vedendo cosa riportavo dalla mia incursione al banco del bar-tabacchi, Hélène sgranò gli occhi.
  «Non ci sono per nessuno», mi raccomandai.
  E invitai la misteriosa biondina a penetrare nel mio santuario, che lei invase subito col suo profumo inebriante.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)

martedì 18 settembre 2012

  «Un... investigatore?»
  «Proprio...» Tira su il labbro, poi beve un sorso di whisky. «Allora, ti siedi o no?»
  «Io... posso mettermi addosso qualcosa?» 
  D'Ambrosi assume un'aria melliflua, da omosessuale. Probabilmente non lo è, ma gioca con la sua preda.
  «Dici un preservativo? Magari dopo, eh? Adesso dobbiamo parlare. Si-e-di-ti». E così dicendo indica con la canna della pistola il pavimento davanti a sé.
  «P-per terra?»
  «Sììì».
  Zardo ubbidisce e si siede sul tappeto con le gambe incrociate, all'indiana.
  «Bene, carino, sarò breve, come si suol dire. Tu sei Federico Zardo, giusto?»
  Zardo muove impercettibilmente la testa come per dire «no», ma non sa perché e non reagisce.
  «Ecco. A me mi ha assunto tua madre».
  «Mia... madre
  «Già. Un bel pezzo di gnocca, complimenti. Non saprei chi scegliere, fra te e lei...» 
  Sorriso laido.
  «Comunque, per ora mi limito a rapporti professionali, sia con la mammina sia con il figlioletto».
  «Ma... ma perché diavolo mia madre avrebbe assunto un investigatore privato?» 
  «Per investigare privatamente, ovvio. Se no, avrebbe assunto un investigatore pubblico!» Ride da solo alla battuta che non fa ridere, poi torna serio e punta la pistola su Zardo. «Per investigare su te, monellaccio!»

(Tiziano Sclavi, Nero., 1992)
  L'indomani mi svegliai verso mezzogiorno.
  Non pioveva più. Il barometro era al bello. Anch'io. Emicrania a parte, mi sentivo infinitamente meglio che la vigilia alla stessa ora. Possedevo cinquantamila franchi in più e i fondi influiscono sulla forma. Ma ero comunque un po' frastornato. Del resto, ero stato bastonato. Che rima! Si vede che è un genere di esperienza che fa diventare tutti poeti.
  Ancora a letto, telefonai a Hélène per chiederle se all'agenzia c'erano novità. Non ce n'erano. Dissi alla mia segretaria che temevo di essermi beccato un inizio di influenza e che forse non mi avrebbe visto per tutta la giornata. La bellezza mi rispose che se ne sarebbe fatta una ragione.
  Dopodiché, mi vestii e scesi a mangiare. Comprai tutti i quotidiani del mattino ancora disponibili al chiosco. Quei fogli parlavano di tutto: dell'ONU, della NATO, della Sezione Francese dell'Internazionale Operaia, dell'Ente Nazionale dell'Elettricità, delle Signorie Vostre, in un gran marasma di sigle che ricordarsele tutte; a Belleville, un marito tradito aveva ucciso la moglie per vendicare il proprio onore ("Pretesti", avrebbe detto Félix Fénéon); dei tre pregiudicati che se l'erano svignata da Fresnes, due erano stati riacciuffati dall'Amministrazione penitenziaria; solo Roger Latuit, detto, inutile chiedersi perché, lo Svenevole, era ancora libero; per restare in tema di signore, Marilyn Monroe e Gina Lollobrigida avrebbero presto girato insieme un film intitolato Testa o Croce. Quella doveva essere una frottola. Ebbi un bel cercare, da nessuna parte veniva menzionato il tiro mancino giocato a Cabirol. Anche le prime edizioni della sera osservavano un analogo mutismo. Se nessuno si decideva a informare i poliziotti o la nettezza urbana della morte del tizio, quello rischiava di marcire tranquillamente e attaccare la peste a tutto il III arrondissement. Sgradevole prospettiva che non smisi di rimuginare fino alla lettura de "Le Crépuscule", edizione dell'una e un quarto.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Il furto non sembrava essere il movente del crimine. Il portafoglio conteneva un buon centinaio di banconote, in meravigliosi tagli da mille franchi. Mi appropriai della metà per le spese di trasferta e l'emozione causata dalla scoperta del cadavere. Una volta messa ben in caldo la grana nella tasca dei pantaloni, mi sentii un altro uomo. Rimisi a posto il portafoglio e intrapresi il giro dei locali per pura curiosità professionale. Avrei fatto meglio ad andare al bar. Entrai in una stanza che fungeva da magazzino e visitai poi una sala da pranzo minuscola, una cucina ancora più piccola e una camera da letto dall'odore di rancido. Niente per me, là dentro. Niente? Vale a dire che... Non è necessario correre, bisogna muoversi al momento giusto!... Al momento giusto!... Questi aforismi che si sono dimostrati validi, bisognerebbe sempre tenerli ben presenti, sempre in mente. Così si eviterebbero un sacco di sciocchezze. E infatti, quando fui di ritorno nella stanza che papà Cabirol riservava ai suoi commerci, uno strumento contundente mi colpì la capoccia. Accecato, accennai anche uno o due saltelli, stile Serge Lifar o Yvette Chauviré. E di stelle certo ne vidi più che a sufficienza qualche secondo dopo. Nel mezzo di una specie di terremoto in un technicolor molto riuscito, sentii una voce interiore bisbigliare dolcemente, accompagnando la mia caduta, che "la farina del diavolo va in crusca" e che "il delitto non paga".
  A quei due non avevo pensato!

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Non molto successo con le donne oggi, Nestor. Doveva avere a che fare con lo scarso spessore del mio portafogli, scarso spessore rilevabile a un chilometro senza l'aiuto di un contatore Geiger. La ragazza, muta e sempre alle prese con il suo naso, si era lanciata verso la strada, mostrandomi per tutta risposta i tacchi delle scarpe in pelle di serpente e le cuciture nere delle calze di nylon. Lasciò però una scia di profumo. Un profumo delicato e gradevole, troppo delicato per combattere vittoriosamente o anche solo per sfidare l'odore di piscio di gatto che dominava l'androne, odore che infatti era rapidamente tornato in possesso dei suoi diritti ancestrali.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)

sabato 15 settembre 2012

  Quando uscivo a mia volta, la proliferazione di Babbi Natale nelle strade, con le loro mantelle rosso sangue e le barbe posticce, mi inquietava sordamente e fraintendevo ogni loro gesto minimamente ambiguo. D'altronde, fin da bambino avevo sempre detestato il Natale e tutta quella sarabanda oscena. Festeggiare la nascita del più grande truffatore di tutti i tempi si accordava bene con la truffa ai danni dei sentimenti che imperversava attorno a quella tetra festa borghese e individualista.

(Bertrand Delcour, Sfida al ponte di Tolbiac)
  Alle dieci e mezzo prendemmo la metropolitana in place d'Italie, e la terza fermata fu quella buona: quai de la Gare. Per quanto mi riguardava, presagi catastrofici affluivano nel mio cervello, e un paio di volte mi sorpresi a battere i denti, mentre Nadja sembrava perfettamente calma e rilassata, lo sguardo perso nel vuoto, un lieve sorriso che le affiorava agli angoli delle labbra.
  Scendemmo le scale del quai de la Gare, e subito di fronte si trovava il ponte di Bercy. Dall'altra parte della Senna, degli edifici con la loro ragione sociale illuminata: BERCY EXPO, BRED, e il gigantesco bunker del ministero delle Finanze, d'aspetto mussoliniano, che sembrava acquattato sulla sua immensa superficie. Attraversammo avenue du quai-de-la-Gare, e costeggiammo le sponde della Senna che erano state sistemate a terrapieno, dove le auto potevano fare manovra e parcheggiare. A una certa distanza l'una dall'altra, delle chiatte ormeggiate erano state trasformate in dancing. Ne notai una, in abbandono, tutta di legno, in stile New Orleans. Sopra di noi, dalla parte opposta del viale, i quattro casermoni della Très Grande Bibliothèque, che di notte non ricordavano altro che una squallida periferia alla Ceausescu. Un senso di desolazione e insicurezza emanava dalle quattro torri, rafforzato ancora di più dalle pattuglie di guardie notturne che camminavano svelte, come se avessero fretta di arrivare da nessuna parte. Lungo gli argini, dei tizi vestiti a festa si arrampicavano su alcune chiatte illuminate da cui saliva il rumore sordo e ossessivo di una musica techno.
  - Sylvie, non vedi che è pieno di sbirri?
  - È dall'altra parte del ponte di Tolbiac - mi rispose lei seccamente.
  Continuammo ad avanzare in riva alla Senna, ma avrei pagato caro per trovarmi altrove. Sotto il soprabito, strinsi il calcio del mio revolver. Alla fine, il ponte di Tolbiac apparve davanti ai nostri occhi. Basso, piatto, anonimo, me l'ero immaginato in stile espressionista, tutto armature e merletti di ferro arruginito. Un altro mito che cadeva. Risalimmo fino al livello del viale per poter attraversare il famigerato ponte. Mi sentivo più cagasotto che mai e strinsi i denti fino tanto da farmi saltare le mascelle.

(Bertrand Delcour, Sfida al ponte di Tolbiac)
  Il primo mezzo litro di 1664 aveva un retrogusto metallico. Senza dubbio perché non potevo più togliermi dalla testa che questo numero era una data, quella della battaglia di Kronenbourg. Una cazzata che avevo sentito, un giorno, vicino a un bancone quasi uguale, bronzo un po' battuto, o zinco lucidato, non so mai. Il cartone umido, sul quale appoggiai con dei gesti lenti il fondo del bicchiere, mi preannunciava, tuttavia, i benefici di un'altra marca. La mescolanza di generi.
  E il secondo mezzo. Era pazzesco quello che mi ero scolato in quel momento. Da due giorni. Da quando Suzanne è a uno stage a Poitiers. Da quando ho approfittato di questo celibato temporaneo per prendere quattro giorni di congedo. Ho fatto i conti, avrò un week end in meno durante le vacanze di Natale, ma va be', Suzanne non dirà nulla; in inverno lei preferisce restare a Parigi, al caldo. Non vede cosa andrebbe a festeggiare altrove.
  Jérôme, tanto, non si beccherà un cenone di capodanno famigliare. Jérôme è mio figlio, il mio gran figlio, quel gran coglione di mio figlio. Insomma... dico così per dire. Per mancanza di pazienza e di immaginazione. Devono essere i mezzi, la battaglia di Kronenbourg, tutte 'ste cazzate.

(Jean-Bernard Pouy, Il cattivo seme)
  Spade Cooley e i suoi ragazzi sul podio. Spade al microfono con Burt Arthur "Deuce" Perkins al basso. Lo chiamavano Deuce perché s'era fatto due anni: atti contro natura con cani. Spade fumava oppio; Deuce si faceva di ero: da un momento all'altro potevano essere tutt'e due facile bersaglio di un servizio su Hush-Hush. Max Peltz dava dei grandi gesti di benvenuto agli operatori; accanto a lui c'era Brett Chase, che parlava con Billy Dieterling, il cameraman in capo. Billy non perdeva d'occhio il suo bello, Timmy Valburn, il Moochie Mouse di Dream-a-dream Hour. Appoggiati alla parete di fondo c'erano dei tavoli carichi di bottiglie e di cibi freddi. Vicino alle provviste c'era Kikey Teitlebaum: probabilmente Peltz aveva ordinato tutto al suo negozio. Kikey stava parlando con Johnny Stompanato: due ex di Mickey Cohen a conciliabolo. Attori, attrezzisti e operatori mangiavano, bevevano e ballavano.
  Jack accompagnò Karen in pista: qualche volteggio su una serie di ritmi veloci, poi guancia a guancia, quando Spade passò ai lenti. Karen teneva gli occhi chiusi; Jack bene aperti: meglio non farsi vedere troppo preso. Un colpetto sulla spalla.
  Miller Stanton chiedeva la dama. Karen aprì gli occhi e restò a bocca aperta: un divo della TV che la invitava a ballare. Jack fece un mezzo inchino: - Karen Morrow, Miller Stanton.
  Karen strillò, al di sopra della musica: - Salve, ho visto tutti i vecchi film di Raymond Dieterling con lei. Era grande!
  Stanton la prese per mano in modo molto formale, - Ero un bamboccio. Jack, va' un momento da Max. Vuole parlarti.
  Jack si portò sul retro del set: tranquillo, musica a basso volume. Max Peltz gli porse due buste. - Il tuo extra stagionale e un contributo per Mr. Loew. Da parte di Spade Cooley.
  La busta per Loew era piuttosto gonfia. - Cosa vuole, Cooley?
  - Una specie di assicurazione, credo. Che non interferiate sulle sue abitudini.
  Jack accese una sigaretta. - Spade non m'interessa.
  - Non è abbastanza famoso?
  - Sta' buono, Max.
  Peltz gli si fece vicino. - Jack, cerca di star buono tu, perché ti stai facendo una brutta fama nell'ambiente. La gente comincia a dire che stai esagerando, che non stai al gioco. Hai spremuto Brett per conto di Loew, e va be': Brett è un maledetto finocchio, se l'è voluta. Ma non puoi sputare nel piatto in cui mangi: in fondo, qui da noi, un tipo su due si fa una fumatina ogni tanto. Ricomincia a prendertela con i neri: quelli del jazz fanno sempre notizia.
  Jack diede un'occhiata al set. Brett Chase era con Billy Dieterling e Timmy Valburn: una vera e propria assemblea di culi. Kikey T. e Johnny Stomp continuavano a chiacchierare: Deuce Perkins e Lee Vachs li stavano raggiungendo. Peltz disse: - Sul serio, Jack. Stai attento.
  Jack indicò i due duri. - Max, stare attento è il mio mestiere. Vedi quei tipi laggiù?
  - Certo. Cosa c'en...
  - Max, quella, in termini tecnici, si chiama riunione di noti pregiudicati. Perkins è stato dentro perché è uno scopacani e per di più ha fatto da autista in un bel numero di rapine. Abe Teitlebaum è in libertà vigilata. Il tipo alto coi baffi è Lee Vachss: ha fatto fuori almeno una dozzina di persone per conto di Cohen. Il guappo di bell'aspetto è Johnny Stompanato: non credo che abbia compiuto i trent'anni, ma ha una fedina lunga come il tuo braccio. Il dipartimento di polizia di Los Angeles mi ha conferito la facoltà di fermare quei succhiacazzi anche in base a un sospetto generico: anzi, non facendolo, manco a un preciso dovere. E non lo faccio proprio perché "sto attento".
  Peltz agitò il suo sigaro. - Be', continua così. E vacci molto piano con queste storie di noti pregiudicati e stai attento: Miller sta puntando la tua preda. Gesù, ti piacciono giovani, eh?
  Voci che correvano: a Max piacevano le ragazzine che andavano ancora a suola. - Meno giovani che a te.
  - Ah! Vattene, fottuto imbroglione. La tua ragazza ti sta cercando.


(James Ellroy, L.A. Confidential)