lunedì 24 dicembre 2012

  «È già tutto stabilito» l'interruppe Spade. «Il punto è: lei cosa vuol fare? È dentro o fuori?»
  Benché il suo sorriso esprimesse una certa tristezza, addirittura una certa afflizione, il grassone annuì. «Non piace neppure a me,» disse rivolto al levantino «ma a questo punto non abbiamo scelta. Nessuna.»
  «Allora, cosa decide, Cairo?» tornò a chiedere Spade. «Dentro o fuori?»
  Umettandosi le labbra, il levantino si girò lentamente verso di lui. «Mettiamo che...» disse, e deglutì. «Ho facoltà...? Posso scegliere?»
  «Certo che può» lo rassicurò Spade in tono grave. «Sappia però che se la risposta è fuori, insieme al suo amichetto scarichiamo anche lei alla polizia.»
  «Su, via, Mr Spade» intervenne Gutman. «Questo non...»
  «Col cavolo che lasciamo che ci volti le spalle. O con noi o in galera. Non possiamo permetterci di lasciare niente in sospeso.» Guardò accigliato il grassone e sbottò, irritato: «Cristiddio! Cos'è, la prima volta che rubate qualcosa? Bella manica di angioletti! E poi cosa pensate di fare? Inginocchiarvi e pregare?». Puntò quello sguardo accigliato su Cairo. «E allora? Ha deciso?»

(Dashiell Hammett, Il falcone maltese, 1930)
  Spade sbuffò e scuffiò. Si sporse in avanti, tornando ad appoggiarsi con gli avambracci sulle ginocchia, e interruppe il grassone, seccato: «La polizia non mi preoccupa affatto e so come affrontarla. E questo è appunto quanto sto cercando di dirle. L'unica maniera di affrontarla è di darle in pasto una vittima, qualcuno su cui scaricare tutto».
  «Bene, Mr Spade, le concedo senz'altro che questa è la maniera di procedere, ma...»
  «Ma un corno!
È l'unica maniera!» sbottò Spade, la fronte aggrottata e rossa, gli occhi accesi e rossi. Il livido alla tempia era color fegato. «So quello che dico. Ci sono già passato altre volte, e altre ancora ci passerò. Prima o poi, mi tocca sempre mandare tutti a quel paese, dalla Corte suprema all'ultimo scagnozzo, e tuttavia riesco a cavarmela. Me la cavo perché tengo comunque presente che alla fine c'è sempre una resa dei conti. Cioè non dimentico mai che quando questa arriva devo presentarmi alla centrale tirandomi dietro un colpevole e annunciando: "Eccovi il vostro criminale, amici del cuore". Se lo faccio, e fino a quando lo faccio, posso portarmi il pollice al naso e sventagliare il resto delle dita a tutte le leggi del Codice. Non lo faccio una sola volta, e sono nei guai. Non è ancora successo e non succederà neppure questa volta. Questo è certo.»
  Gutman sbattè le palpebre e la mellifluità del suo sguardo parve attenuarsi, ma tutto il resto del faccione roseo rimase immutato nella fissità del sorriso compiaciuto, mentre nella voce non risuonava la minima nota di disagio. «
È certamente un sistema che ha i suoi lati positivi, Mr Spade...» disse. «Accidenti se li ha! E fosse applicabile anche in questa occasione, sarei il primo a dirle: "Faccia pure, si figuri!". Ma si dà il caso che stavolta non sia purtroppo applicabile. Può succedere, anche con i migliori sistemi. Capita insomma la volta in cui bisogna fare un'eccezione, e chi ha un briciolo di ingegno non esita a farla. Ebbene, Mr Spade, questo è proprio il caso, e non esito a dirle che secondo me lei dopotutto è ben pagato per fare appunto questa eccezione. Magari le sarebbe più facile e comodo consegnare il suo colpevole alla polizia, ma» rise e allargò le braccia «lei non è tipo da annegare in un bicchier d'acqua. Sa come cavarsela, come cascare alla fine ssempre in piedi, qualunque cosa accada.» Sporse le labbra in fuori e socchiuse un occhio. «Se la caverà.»
  Dagli occhi di Spade era scomparssa ogni fiamma, il viso era divenuto inespressivo e impassibile. «So quello che dico.» Parlava a voce bassa, in tono esageratamente paziente. «Questa è la mia città e questo è il mio mestiere. Certo stavolta magari riuscirei anche a cascare in piedi, ma la prossima, se solo ci riprovassi, mi farebbero lo sgambetto e mi ritroverei con il culo a terra. All'inferno. E voi intanto stareste a New York o a Costantinopoli o a casa del diavolo. Io qui ci lavoro.»

(Dashiell Hammett, Il falcone maltese, 1930)
  - Interrogavo il testimone, - disse Adamsberg appoggiando su una sedia la giacca appallottolata.
  - Gliene serve, di tempo, commissario.
  - Sì.
  - Ha saputo qualcosa?
  - La circonferenza del cuore di una pratolina. Di una pratolina piuttosto grossa.
  - Non abbiamo tempo per giocherellare, penso che glielo abbiano fatto capire bene.
  - E' un tipo difficile e ha motivo di esserlo. Ma sa un sacco di cose.
  - C'è urgenza, commissario, e ho degli ordini. Non le hanno insegnato che qualunque tizio "difficile" ce lo si può lavorare in meno di un quarto d'ora?
  - Sì.
  - Cosa aspetta?
  - Di dimenticarmene.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  Fine. Per quella sera non ne avrebbe più venduta nemmeno una. Troppo freddo, troppo tardi, le strade si erano svuotate, erano quasi le undici in place Maubert. L'uomo si diresse verso destra, spingendo il suo carrello, a braccia tese. Quei maledetti carrelli da supermercato non erano strumeti di precisione. Ci voleva tutta la forza dei polsi e una bella conoscenza dell'aggeggio per mantenerlo nella giusta direzione. Era testardo come un asino, si spostava di sbieco, resisteva. Bisognava parlargli, insultarlo, maltrattarlo; ma, come l'asino, permetteva di trasportare una bella quantità di mercanzia. Testardo ma fedele. Il suo carrello l'aveva chiamato Martin, per deferenza verso tutto il lavoro che si erano sciroppati gli asini di una volta.
  L'uomo parcheggiò il carrello vicino a un palo e lo legò con una catena a cui aveva attaccato un campanaccio. Guai al bastardo che avesse voluto fregargli il carico di spugne mentre dormiva, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Di spugne, se quel giorno ne aveva vendute cinque era un miracolo. Venticinque franchi in tutto, più i sei avanzati da ieri. Prese il sacco a pelo da una borsa appesa sotto il carrello, si sdraiò su una griglia della metropolitana e si avvolse ben stretto. Impossibile andare a riscaldarsi nel metrò, avrebbe dovuto abbandonare il carrello per strada.
È così: quando hai un animale, devi fare dei sacrifici. Non avrebbe mai lasciato Martin da solo lì fuori.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  I telefoni avevano suonato molto, c'era stata ogni sorta di andirivieni, agitazione, istruzioni, ordini. Un allarme generale perché una donna in pelliccia si era fatta ammazzare. Di sicuro, se si fosse trattato di Monique, la signora dell'edicola che gli lasciava leggere le notizie tutte le mattine alla precisa condizione di non aprire il giornale fino alla piegatura, sicché del mondo conosceva solo una metà longitudinale senza mai raggiungere il nocciolo, di sicuro, se si fosse trattato di Monique, non ci sarebbero stati dieci poliziotti a correre da un ufficio all'altro, come se l'intero Paese stesse sprofondando in mare. Avrebbero aspettato tranquillamente l'ora del caffè per trascinarsi fino all'edicola a constatare i danni. E non avrebbero telefonato a mezzo mondo. Mentre per la donna in bianco avevano svegliato tutta la capitale, a quanto pareva. Per quella donnetta che non aveva mai strizzato una spugna.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  La donna grassa volò al di sopra del parapetto del ponte National fino alle acque nere della Senna. Il fiume scorreva veloce, spinto da un vento gelido. Nessuno per strada, nessuno che fosse lì a vedere. Bar chiusi, taxi assenti, città deserta. Il Natale è una festa domestica, interna. Fuori non filtra niente. Persino i solitari irriducibili si radunano in un'osteria con due bottiglie e quattro imbecilli. La solitudine, il vagabondaggio, sopportabili e a volte addirittura sfoggiati spavaldamente nel resto dell'anno, sembrano di colpo un disonore infamante. Il Natale getta l'obbrobrio su chi è solo. Così, prima di mezzanotte tutti si sono rintanati. La donna grassa volò in acqua senza che nessuno s'immischiasse.

(Fred Vargas, La notte efferata, 1999)
  Gli fornii i dati. Disse che richiamava tra un quarto d'ora.
  Gironzolai per la stanza, piantandomi le unghie nelle mani, cercando di tenermi su. Avevo di nuovo la gola incordata. Mi rimisi a borbottare, masticavo e rimasticavo quello che avevo appena detto a Ike. Il telefono squillò. Risposi. Mi aveva fatto i conti, disse, e cominciò a darmeli. Con tre soluzioni diverse, perché avessi tutto il quadro. Durò venti minuti. Io prendevo nota. Mi sentivo il sudore sprizzare sulla fronte e colarmi giù dal naso. Terminò.
  «
Okay, Ike, è proprio quello che mi serviva di sapere. Punto per punto. Grazie infinite».
  Appena riappese crollai. Mi precipitai in bagno. Vomitai, non ero mai stato così male in vita mia. Dopo mi buttai a letto. Passò molto tempo prima che potessi spegnere la luce. Rimasi lì con gli occhi fissi nel buio. A tratti mi prendeva un gelo, o cosa, e mi mettevo a tremare. Passava e restavo come intontito. Poi cominciai a pensare. Non volevo, ma i pensieri mi strisciavano addosso. Capii cosa avevo fatto. Avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo per avere una donna. Mi ero messo nelle sue mani, e così al mondo c'era una persona che poteva puntare il dito su di me e sarei morto. Avevo fatto tutto questo per lei, e non la volevo rivedere finché vivevo.
  Tanto basta, una goccia di paura, per cagliare l'amore in odio.

(James M. Cain, La morte paga doppio, 1936)
  Pensate che io sia matto? Va bene, sarò matto. Ma fate per quindici anni il mio lavoro, e forse ammattirete anche voi. A voi sembra un lavoro come il vostro, no, e magari un po' meglio, perché è amico della vedova e dell'orfano, e aiuta chi è nei guai? Macché. È una roulette, la più grossa ruota d'azzardo del mondo. Non sembra, ma lo è, dal modo in cui calcolano la percentuale di rischio alla faccia che fanno quando incassano i vostri gettoni. Tu scommetti che la tua casa brucerà, loro scommettono che non brucerà, tutto qui. Quello che ti imbroglia, è che tu non desideravi che ti bruciasse la casa quando hai fatto la scommessa, e così dimentichi che è una scommessa. Loro non si imbrogliano. Per loro una scommessa è una scommessa, e questa non è diversa da tutte le altre. Ma viene il momento, magari, in cui tu vuoi che la tua casa bruci, perché i soldi valgono più della casa. E qui cominciano i guai. Loro sanno che ce n'è di gente, là fuori, che cerca di truccare la ruota, e con quelli diventano duri. Hanno le loro antenne, là fuori, conoscono tutti i trucchi, e se vuoi fregarli ti conviene essere in gamba. Finché sei onesto ti pagano col sorriso sulle labbra, e puoi anche andartene a casa pensando che è stato tutto un bel gioco, pulito. Ma prova a fare il furbo e vedrai.
  Allora, io sono un agente. Sono un croupier di quel gioco. I trucchi li conosco tutti, sto sveglio la notte a pensarci, per essere pronto quando ci provano. E poi una notte ne invento uno, di trucco, e mi metto a pensare che quella ruota potrei imbrogliarla io, se avessi un compare là fuori per piazzare la mia scommessa. Tutto qui. Con Phyllis avevo trovato il mio compare. Magari vi sembrerà strano, che io fossi disposto a uccidere un uomo soltanto per raccattare un mucchietto di gettoni, ma forse non vi sembrerebbe tanto strano se foste dietro a quella ruota, invece che davanti. Avevo visto bruciare tante di quelle case, tante auto fracassate, tanti morti con un buco blu nella tempia, tante cose tremende che fa la gente per falsare la ruota, che a me quella roba non sembrava più reale. Se non capite, andate a Montecarlo o in qualche altro posto dove c'è un grosso casinò, sedetevi a un tavolo, e guardate la faccia del tizio che fa girare la pallina d'avorio. Dopo un po' che lo guardate, chiedetevi cosa gliene importerebbe, a quello lì, se uscite fuori e vi piantate una pallottola in testa. Magari quando sente lo sparo abbasserebbe gli occhi. Ma non perché si preoccupa se siete vivi o morti. Solo per controllare se avete lasciato una puntata sul tavolo, che dovrebbe liquidare ai vostri eredi. Importargliene, no. Non a quel bimbo.

(James M. Cain, La morte paga doppio, 1936)
  Sono una vecchia lenza. Sono cresciuto ammirando, sul palcoscenico del vecchio Apollo e su quello non meno vecchio di Eltinge, Georgia Sothern, Gypsy Rose Lee, Anne Corio e altre celebri spogliarelliste, perciò ho ricevuto lezioni di anatomia femminile dalle migliori. Non c'è mai stata una forma o una misura che non sapessi sistemare in una categoria o in un'altra, da qualsiasi parte guardassi e, nello stesso tempo, con occhio clinico. Le donne sono donne. La controparte femminile. Si credono qualcosa di speciale, intelligenti, tenere, pneumatiche, terribilmente sexy, incredibilmente belle, con quel tanto di istintivo che ritengono possa far girare la testa a un uomo. Quasi nessuna corrisponde al modello. Be', qualcuna l'ho conosciuta.
  E adesso ne conoscevo un'altra.
  Si era fermata proprio in mezzo alla stanza e continuava a sorridere, beffarda e provocante, mentre si slacciava lentamente il vestito e lo lasciava cadere ai piedi.
 
«Così va meglio?»
  Annuii, ma distrattamente, perché non aveva certo lo stile di una Georgia Sothern. Quella sì sapeva spogliarsi! Lo faceva di solito sul ritmo di
«Hold that Tiger», ma oggi quella musica sembrerebbe sciocca. «Non sei niente male», le dissi.
 
«Posso bere qualcosa?»
  Assaggiai il mio whiskey al selz e mi allentai la cravatta.
«Se è questo di cui hai bisogno per non sentirti inibita, piccola, il bar è proprio dietro di te».
  Si alzò in punta di piedi; adesso indossava soltanto un reggiseno e uno slippino color carne. Mi guardò sorridendo come se eseguisse uno spettacolo completo.
«Ti piace?»
 
«Mi piace», ammisi.
  Infilò il pollice nello slippino e lo tirò giù di un buon dito.
«Ti piace?» La sua voce aveva un tono interrogativo molto provocante.
 
«Mi piace», ripetei.
  Si tolse il reggiseno. Ne uscirono due bei seni pieni, sodi alti, con tondi, insolenti capezzoli che spuntavano da scure aureole.
 
«Ti piace sempre?» chiese. Vidi i suoi occhi posarsi su di me che ero spaparanzato quanto son lungo sul mio vecchio divano. Per un attimo rimase perplessa.
 
«Sono un intenditore, bellezza».
  Tornò a sorridere e si tolse anche lo slippino color carne.
  Le donne nude sono belle. Accidenti se sono belle! Di qualsiasi forma e di qualsiasi misura, e quando sono costruite come le pinup che in guerra mettevamo nell'interno degli armadi e come quelle che ancora oggi appiccicano nelle autorimesse per farti distrarre dai conti delle riparazioni, ti possono spingere a qualsiasi sciocchezza.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)
  Spalancai l'uscio del bar e passai davanti ai ragazzi in basette e chioma fluente sulle spalle. Erano brutti da far paura, e le loro ragazze lo erano altrettanto. Solo puzzavano un po' meno, ma di un profumo artificiale; mi chiesi se se lo mettevano per mettere in risalto il poco che avevano o per coprire quello di cui mancavano. Un idiota fece quasi per accostarmi ma io gli strinsi il braccio un po' più forte del normale e quello subito si sbiancò e mi lasciò andare con un risolino poco sano di cui suo padre avrebbe dovuto guarirlo dieci anni prima, quando per lui c'era ancora speranza, a suon di ceffoni.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)
  Quasi senza accorgermene mi trovai in mano la calibro 45; il calcio era contro il mio palmo un oggetto familiare. Era nera, lucida, oleata, con l'impugnatura di noce; era una vecchia amica che da un pezzo mi accompagnava dappertutto.
  La rimisi nella fondina e mi affacciai alla finestra. Le nubi si rincorrevano fondendosi le une nelle altre, avvolgendo in un'oscurità prematura le torreggianti colonne di mattoni e di acciaio. Oh, sì, è una grande città, New York! Milioni di persone si rintanano come talpe nel sottosuolo o salgono lungo quelle rupi artificiali che sono i grattacieli per andarsi a chiudere nelle loro nicchie segrete. Per lo più sono soltanto esseri umani qualsiasi ma c'erano anche gli altri, i killer, e in quel momento ce n'era uno in libertà che apparteneva tutto a me.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)

venerdì 21 dicembre 2012

  - Mancano dieci minuti alle diciotto e noi cessiamo il servizio. Mandate qualcun altro -. Dalla centrale non viene risposta. Sarti Antonio, sergente, riattacca:
  - Ripeto: smontiamo alle diciotto... - Stavolta rispondono.
  È Raimondi Cesare, ispettore capo:
  - Non importa che ripeti, sergente. La tua è l'unica auto disponibile. Va' subito in via Irnerio 27.
  - E vabbe'. Le altre auto saranno a caccia di qualcuno che litiga sul piazzale delle autocorriere -. Prima di parlare, però, ha chiuso la ricevente: non si sa mai come la prende, quello.
  Appena arriva con l'auto 28 davanti al civico numero 27 di via Irnerio, una matta attraversa la strada di corsa, facendo bestemmiare una colonna di automobilisti che arriva fino al semaforo di via Indipendenza.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975)   
  L'ultimo tentativo lo fa a casa di Filippo Coco. Casa per modo di dire, perché più che altro è un posto dove si accatastano gli studenti, uno sull'altro come fossero cose. Lo schifo che mi fanno! Non gli studenti. State a sentire: arrivano in città, quei disgraziati che devono andare all'università e, naturalmente, non sanno dove andare a dormire; le iene gli si gettano sopra e hanno il coraggio di affittargli un buco (chiamato camera) dove ci sono sei letti, uno attaccato all'altro; e vogliono quarantamila lire al mese da ogni studente. Magari Filippo Coco o gli altri hanno pure provato a dormire sotto un portico, ma con l'inverno diventa difficile e allora non resta che tirar fuori le quarantamila, riscaldamento escluso.
  Ovvero il popolo che sfrutta i figli del popolo, in nome del popolo (e della cultura).
  Perché non potete venire a raccontarmi che chi affitta così le camere è un capitalista, sfruttatore che possiede tutto il centro storico, e quindi, o prendere o lasciare... No, cari miei. Quelli sono muratori che si sono comprati a rate un lurido appartamento nei pressi dell'università. Sono contadini che hanno trasformato in dormitorio pubblico il magazzino al piano terra che dà direttamente su un cortile senz'aria. Sono bottegai che la domenica hanno sputato l'anima per rendere passabile una soffitta che il nonno gli aveva lasciata piena di bauli e di polvere! Altro che balle! Venite a vedere: Filippo Coco ha il letto in un angolo che per raggiungerlo bisogna passare sopra altri cinque. La finestra dà direttamente sul marciapiede e se la aprono un momento, per cambiar aria, la camera si riempie di gas di scarico delle auto che non ci si vede più da qui a lì. C'è puzza di tutto: dal sudore all'orina, dalla muffa alla scoreggia.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975) 
  Che molti cittadini fossero schedati, lo avevo già letto da qualche parte, poi la cosa era rimasta fra il sì e il no e nessuno ne aveva più parlato. Ma vedere che anch'io sono nelle schede, mi ha fatto un certo effetto. È stato quando Sasrti Antonio, sergente, è andato al casellario penale, a cercare le cartelle segnaletiche dei quattro «irreperibili al loro domicilio». Si può sempre trovare qualcosa di interessante. Io, infatti, mentre Sasrti si fa i fatti suoi, ci trovo la mia scheda con tanto di foto e di impronte digitali. E ne imparo di quelle, sul mio conto, che, se non mi conoscessi da tanti anni, comincerei a sospettare di essere un delinquente irrecuperabile. Per esempio: ho tendenza alla libidine; frequento persone e ambienti pericolosi; leggo stampa poco qualificata; scrivo in maniera non ortodossa e, soprattutto, sono da tenere d'occhio per certe mie affermazioni in merito alla situazione politica nazionale e internazionale. Però (è confortante) non sono dedito agli stupefacenti e non sono omosessuale. Questo mi tranquillizza, ma resto comunque un individuo pericoloso e la società farà bene a stare in guardia. C'è scritto inoltre che non è chiaro come io riesca a vivere, visto che non ho un mestiere qualificante. Per mestiere qualificante loro intendono: fabbro ferraio, imbianchino, docente universitario, guardiafili, bottegaio, facchino, odontoiatra, poliziotto o altra simile occupazione professionale.
  Ma Sarti Antonio, sergente, non è venuto per la mia scheda e se si accorge che spreco pagine parlando di me, è capace che si arrabbia.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975)

martedì 23 ottobre 2012

  Avendo cominciato dalla gavetta, e giovanissima per giunta, Marinette aveva preso il gusto dell'autorità. Nella sua casa voleva soltanto dei primi premi di bellezza; corpi scultorei di primissima scelta, volti da madonne e biancheria di lusso! Teneva moltissimo all'abbigliamento, come pure all'educazione e alle buone maniere. Le sue figliole le presentava in abiti da passeggio, sotto l'aspetto di mogli che, non soddisfatte della minestra di tutti i giorni, si fossero svegliate e fossero venute lì per farsi soddisfare dagli sporcaccioni. I gonzi si eccitavano moltissimo a quel ruolo di paladini della patta, di salvatori della tranquillità coniugale. Inoltre, siccome Marinette affibbiava a tutte quelle topoline dei mariti bidoni, avvocati, diplomatici, ingegneri, ufficiali, industriali o magistrati, il cliente aveva l'ulteriore soddisfazione rivoluzionaria di fottere l'alta borghesia. In confidenza, questa doveva essere un po' la rivincita morale di Marinette, della povera e affamata ragazza che un tempo era stata.

(Albert Simonin, Grisbi, 1953)
  Al volante della Vedette mi giravano le palle.
  Nonostante tutto il grano che avevo, mi sentivo il re dei coglioni se alla mia età, col mio passato... a Parigi, poi, la città dove ero nato, e avevo a mia disposizione due appartamenti completamente pagati, mi trovavo a rigirare come un topo in trappola, al volante di una macchina da novecento sacchi, debitamente acquistata anche quella. Era una cosa scandalosa, a pensarci bene. Quando poi c'erano, tra Charonne e Pigalle, tra Saint-Ouen e Grenelle, per lo meno tremila piccoli sfruttatori di donne, dei miseri pivelli, dei poveri imbroglioni, che certo non si scervellavano. Senza il becco di un quattrino, con almeno due mesi di fitto arretrati, a quest'ora se ne stavano, nei loro abitucci da mascherata, a fare i belli sotto le insegne al neon dei caffè, davanti a dei pastis ben lattescenti, fantasticando sul loro avvenire.
  A forza di pensarci su, settimana per settimana, mese per mese, avrebbero certamente finito un bel giorno per debuttare sul serio. Dapprima, in un colpo fesso, poi, in uno importante... Quelli che non si facevano ficcar dentro in breve avrebbero potuto vestirsi quanto e come volevano; abiti di pura lana inglese da cinquanta sacchi; scarpe a quadrupla suola; quanto alle camicie, ah, quelle, le avrebbero volute di popeline frusciante, di quello che sembra seta! Quei bambini, vedendosi trasformati a quel modo, avrebbero sentito crescere l'appetito. Allora, ci sarebbe voluto un nome, una fama, un credito, e via discorrendo! Non sarebbe passato molto tempo e te li saresti trovati tra i piedi, a piantar grane su tutto, a rendere infrequentabili anche i quartieri tranquilli!
  Fredo e la sua squadra di rompiscatole erano esattamente di quella razza: un mucchio di piccoli bulli al caffelatte che erano stati troppo a sentire le canzoni di Edith Piaf, dei fresconi che avevano letto troppi romanzi di Peter Cheyney... e che poi, un bel giorno, avevano voluto viverli a ogni costo. Quanto a me, non mi avrebbero scocciato se fossero rimasti tra loro, nel loro quartiere, creandosi un ambiente, come certuni hanno fatto a Saint-Germain-des-Prés, un settore dove non bazzico mai.

(Albert Simonin, Grisbi, 1953)

lunedì 24 settembre 2012

  La serratura della camera di Badoux meritava appena quel nome. Non più complicata di un elettore medio, non era rinforzata da alcun catenaccio e praticamente scattò da sola di fronte al mio taglierino-apriscatole. Avrei preferito più resistenza. Apparentemente Badoux non temeva né ladri né indiscreti. Un animo tanto puro era un cattivo segno per me.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Odette Larchaut ci aspettava in un immenso salone, con il soffitto molto alto. Per ragioni di armonia, al piano inferiore, occupato da una ditta commerciale, non doveva essere peggio. Il mobilio senza pretese strideva con le sculture d'epoca, ancora intatte in diversi angoli della stanza, negli intarsi lignei sopra le porte, in particolare, e con i dipinti del soffitto. Questi ultimi - ignoravo se fossero manierismi di maniera - imploravano di essere restaurati al più presto. Erano pericolosamente screpolati e, per tutto il tempo che rimasi nella sala, temetti che un pezzo di chiappa della divinità tanto callipigia quanto mitologica che planava sulle nostre teste finisse dentro il mio aperitivo, come una scorza supplementare.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Si è rivestito, ma con i vestiti di Zardo.
  Sudato, teso nello sforzo, sta cercando di far stare tutto il cadavere dentro la valigiona. Sbuffa. Manda dentro una gamba ed esce un braccio, manda dentro il braccio, ed esce la testa. Sembra una gag.
  Poi finalmente tira una delle cerniere. Si mette in ginocchio sulla valigia e tira l'altra cerniera, che scorre a fatica, finché non viene bloccata da una mano che fuoriesce.
  Sfinito, si alza in piedi, guarda la valigia, ringhia.
  Torna a inginocchiarsi accanto, cerca inutilmente di cacciare dentro la mano, non ce la fa.
  Ci pensa per un po', sospirando. Poi assume un'espressione decisa.
  Apre l'anta di un armadio a fianco dell'entrata del bagno. Gli cadono addosso con fragore attrezzi, scope, cianfrusaglie.
  Si ritrova seduto a terra, con la testa alta ad ascoltare se succede qualcosa dopo il fracasso.
  Poi diventa cattivo.
  «Beh? Stavolta non li hai sentiti i rumori? Prova a richiamarli, i poliziotti, vecchia troia vergine, prova!»
  Si alza. Poco dopo eccolo in piedi, con un seghetto ad arco in mano.
  Di nuovo inginocchiato sulla valigia. Sta per segare la mano. La lama si avvicina lentamente al polso. Poi giù, forte.
  Uno spruzzo di sangue gli arriva in faccia.

(Tiziano Sclavi, Nero., 1992)

giovedì 20 settembre 2012

  Raccolsi il pacchetto da terra e lo portai fino alla scrivania, dove mi sedetti.
  «Non è così?».
  Era una busta rosa, barrata da un'iscrizione blu pervinca: «Rosyanne, calze, biancheria intima, rue des Petits-Champs». A dieci metri dal mio ufficio, andando verso avenue de l'Opéra. Un'elegante vetrina, provocante e calda, con tutto ciò che ci vuole per alimentare i sogni degli scapoli e anche quelli degli sposati. Fantastico.
  «No, non è così», protestò lei con veemenza. «E tanto meglio se l'ho incontrata. Così posso dirle tutto. Togliermi il peso, sperando che serva a calmarmi...».
  Aprii anche quella busta e tirai fuori un paio di mutandine aracnee di nylon nero bordate di pizzo.
  «...È da due giorni che non vivo più, io... Lei non mi ascolta...», gemette.
  «Si sbaglia. Riesco benissimo a fare due cose contemporaneamente...». (Spiegai l'indumento di biancheria e lo esaminai tendendo le braccia). «...Ma che graziose», commentai, con le ridicole smancerie di un commesso viaggiatore salace. «L'inquietudine di cui parla non le impedisce comunque di pensare a questi fronzoli, eh?».
  «Oh! Ma cosa significa?...». (Ebbe un gesto di impazienza). «...Una donna è sempre una donna. Non so nemmeno perché ho acquistato quegli slip...».
  «In ogni caso, sono molto graziosi... molto suggestivi... devono starle come un guanto».
  Le guance le si arrossarono. Esplose:
  «Non le permetterò di abusare della situazione. Ne ho abbastanza, capisce? Abbastanza! Abbastanza!...». (Battè i piedi). «...Siete tutti uguali, tutti villani, sia che vi chiamate Cabirol, Burma o non so cos'altro. Sporchi villani disgustosi. Io...».
  Stava soffocando. Tremava come una foglia. Da rosso che era, sotto il trucco, il suo colorito passò al bianco gesso. Gli occhi le si rivoltarono. Emise sottili gridolini di lamento. Scivolò dalla poltrona...
  Andai a cercare l'infermiera:
  «Dammi una mano, Hélène, è appena svenuta...».
  Hélène, che faceva finta di battere a macchina, interruppe il suo lavoro simulato e fissò lo sguardo sulla mia mano destra:
  «Forse non sopporta che qualcuno le tolga gli slip», insinuò.
  Imprecando, feci sparire la biancheria intima.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  «Andiamo nel mio ufficio», dissi.
  «Ufficio?».
  «Bisognerà pur aspettare la fortuna da qualche parte. Ho preso in affitto un ufficio a questo scopo. La maggior parte del tempo lo passo a dormirci. È proprio qui di fronte, basta attraversare la strada. Lì saremo soli, nessuno ci disturberà».
  Le ripresi il braccio. Scosse la testa e si lasciò guidare senza opporre alcuna resistenza.
  Salimmo le scale in silenzio. Almeno sul capitolo gambe non mi ero sbagliato: erano molto belle.
  Quando, arrivati al secondo pianerottolo, vide sulla porta la placca che indicava il tipo di lavoro a cui ci dedicavamo lì dentro, si irrigidì e fece un passo indietro:
  «Poli... lei è un poliziotto?»
  «Privato. Quindi non troppo importante. Non abbia paura».
  Mi feci da parte per lasciarla passare. Superando la soglia dell'agenzia Fiat Lux, mormorò una frase indistinta. Una preghiera, forse. Ai nostri giorni, la religione si insinua nei posti più bizzarri e la si adatta a tutte le salse, spesso le peggiori. Vedendo cosa riportavo dalla mia incursione al banco del bar-tabacchi, Hélène sgranò gli occhi.
  «Non ci sono per nessuno», mi raccomandai.
  E invitai la misteriosa biondina a penetrare nel mio santuario, che lei invase subito col suo profumo inebriante.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)

martedì 18 settembre 2012

  «Un... investigatore?»
  «Proprio...» Tira su il labbro, poi beve un sorso di whisky. «Allora, ti siedi o no?»
  «Io... posso mettermi addosso qualcosa?» 
  D'Ambrosi assume un'aria melliflua, da omosessuale. Probabilmente non lo è, ma gioca con la sua preda.
  «Dici un preservativo? Magari dopo, eh? Adesso dobbiamo parlare. Si-e-di-ti». E così dicendo indica con la canna della pistola il pavimento davanti a sé.
  «P-per terra?»
  «Sììì».
  Zardo ubbidisce e si siede sul tappeto con le gambe incrociate, all'indiana.
  «Bene, carino, sarò breve, come si suol dire. Tu sei Federico Zardo, giusto?»
  Zardo muove impercettibilmente la testa come per dire «no», ma non sa perché e non reagisce.
  «Ecco. A me mi ha assunto tua madre».
  «Mia... madre
  «Già. Un bel pezzo di gnocca, complimenti. Non saprei chi scegliere, fra te e lei...» 
  Sorriso laido.
  «Comunque, per ora mi limito a rapporti professionali, sia con la mammina sia con il figlioletto».
  «Ma... ma perché diavolo mia madre avrebbe assunto un investigatore privato?» 
  «Per investigare privatamente, ovvio. Se no, avrebbe assunto un investigatore pubblico!» Ride da solo alla battuta che non fa ridere, poi torna serio e punta la pistola su Zardo. «Per investigare su te, monellaccio!»

(Tiziano Sclavi, Nero., 1992)
  L'indomani mi svegliai verso mezzogiorno.
  Non pioveva più. Il barometro era al bello. Anch'io. Emicrania a parte, mi sentivo infinitamente meglio che la vigilia alla stessa ora. Possedevo cinquantamila franchi in più e i fondi influiscono sulla forma. Ma ero comunque un po' frastornato. Del resto, ero stato bastonato. Che rima! Si vede che è un genere di esperienza che fa diventare tutti poeti.
  Ancora a letto, telefonai a Hélène per chiederle se all'agenzia c'erano novità. Non ce n'erano. Dissi alla mia segretaria che temevo di essermi beccato un inizio di influenza e che forse non mi avrebbe visto per tutta la giornata. La bellezza mi rispose che se ne sarebbe fatta una ragione.
  Dopodiché, mi vestii e scesi a mangiare. Comprai tutti i quotidiani del mattino ancora disponibili al chiosco. Quei fogli parlavano di tutto: dell'ONU, della NATO, della Sezione Francese dell'Internazionale Operaia, dell'Ente Nazionale dell'Elettricità, delle Signorie Vostre, in un gran marasma di sigle che ricordarsele tutte; a Belleville, un marito tradito aveva ucciso la moglie per vendicare il proprio onore ("Pretesti", avrebbe detto Félix Fénéon); dei tre pregiudicati che se l'erano svignata da Fresnes, due erano stati riacciuffati dall'Amministrazione penitenziaria; solo Roger Latuit, detto, inutile chiedersi perché, lo Svenevole, era ancora libero; per restare in tema di signore, Marilyn Monroe e Gina Lollobrigida avrebbero presto girato insieme un film intitolato Testa o Croce. Quella doveva essere una frottola. Ebbi un bel cercare, da nessuna parte veniva menzionato il tiro mancino giocato a Cabirol. Anche le prime edizioni della sera osservavano un analogo mutismo. Se nessuno si decideva a informare i poliziotti o la nettezza urbana della morte del tizio, quello rischiava di marcire tranquillamente e attaccare la peste a tutto il III arrondissement. Sgradevole prospettiva che non smisi di rimuginare fino alla lettura de "Le Crépuscule", edizione dell'una e un quarto.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Il furto non sembrava essere il movente del crimine. Il portafoglio conteneva un buon centinaio di banconote, in meravigliosi tagli da mille franchi. Mi appropriai della metà per le spese di trasferta e l'emozione causata dalla scoperta del cadavere. Una volta messa ben in caldo la grana nella tasca dei pantaloni, mi sentii un altro uomo. Rimisi a posto il portafoglio e intrapresi il giro dei locali per pura curiosità professionale. Avrei fatto meglio ad andare al bar. Entrai in una stanza che fungeva da magazzino e visitai poi una sala da pranzo minuscola, una cucina ancora più piccola e una camera da letto dall'odore di rancido. Niente per me, là dentro. Niente? Vale a dire che... Non è necessario correre, bisogna muoversi al momento giusto!... Al momento giusto!... Questi aforismi che si sono dimostrati validi, bisognerebbe sempre tenerli ben presenti, sempre in mente. Così si eviterebbero un sacco di sciocchezze. E infatti, quando fui di ritorno nella stanza che papà Cabirol riservava ai suoi commerci, uno strumento contundente mi colpì la capoccia. Accecato, accennai anche uno o due saltelli, stile Serge Lifar o Yvette Chauviré. E di stelle certo ne vidi più che a sufficienza qualche secondo dopo. Nel mezzo di una specie di terremoto in un technicolor molto riuscito, sentii una voce interiore bisbigliare dolcemente, accompagnando la mia caduta, che "la farina del diavolo va in crusca" e che "il delitto non paga".
  A quei due non avevo pensato!

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)
  Non molto successo con le donne oggi, Nestor. Doveva avere a che fare con lo scarso spessore del mio portafogli, scarso spessore rilevabile a un chilometro senza l'aiuto di un contatore Geiger. La ragazza, muta e sempre alle prese con il suo naso, si era lanciata verso la strada, mostrandomi per tutta risposta i tacchi delle scarpe in pelle di serpente e le cuciture nere delle calze di nylon. Lasciò però una scia di profumo. Un profumo delicato e gradevole, troppo delicato per combattere vittoriosamente o anche solo per sfidare l'odore di piscio di gatto che dominava l'androne, odore che infatti era rapidamente tornato in possesso dei suoi diritti ancestrali.

(Léo Malet, Febbre nel Marais, 1955)

sabato 15 settembre 2012

  Quando uscivo a mia volta, la proliferazione di Babbi Natale nelle strade, con le loro mantelle rosso sangue e le barbe posticce, mi inquietava sordamente e fraintendevo ogni loro gesto minimamente ambiguo. D'altronde, fin da bambino avevo sempre detestato il Natale e tutta quella sarabanda oscena. Festeggiare la nascita del più grande truffatore di tutti i tempi si accordava bene con la truffa ai danni dei sentimenti che imperversava attorno a quella tetra festa borghese e individualista.

(Bertrand Delcour, Sfida al ponte di Tolbiac)
  Alle dieci e mezzo prendemmo la metropolitana in place d'Italie, e la terza fermata fu quella buona: quai de la Gare. Per quanto mi riguardava, presagi catastrofici affluivano nel mio cervello, e un paio di volte mi sorpresi a battere i denti, mentre Nadja sembrava perfettamente calma e rilassata, lo sguardo perso nel vuoto, un lieve sorriso che le affiorava agli angoli delle labbra.
  Scendemmo le scale del quai de la Gare, e subito di fronte si trovava il ponte di Bercy. Dall'altra parte della Senna, degli edifici con la loro ragione sociale illuminata: BERCY EXPO, BRED, e il gigantesco bunker del ministero delle Finanze, d'aspetto mussoliniano, che sembrava acquattato sulla sua immensa superficie. Attraversammo avenue du quai-de-la-Gare, e costeggiammo le sponde della Senna che erano state sistemate a terrapieno, dove le auto potevano fare manovra e parcheggiare. A una certa distanza l'una dall'altra, delle chiatte ormeggiate erano state trasformate in dancing. Ne notai una, in abbandono, tutta di legno, in stile New Orleans. Sopra di noi, dalla parte opposta del viale, i quattro casermoni della Très Grande Bibliothèque, che di notte non ricordavano altro che una squallida periferia alla Ceausescu. Un senso di desolazione e insicurezza emanava dalle quattro torri, rafforzato ancora di più dalle pattuglie di guardie notturne che camminavano svelte, come se avessero fretta di arrivare da nessuna parte. Lungo gli argini, dei tizi vestiti a festa si arrampicavano su alcune chiatte illuminate da cui saliva il rumore sordo e ossessivo di una musica techno.
  - Sylvie, non vedi che è pieno di sbirri?
  - È dall'altra parte del ponte di Tolbiac - mi rispose lei seccamente.
  Continuammo ad avanzare in riva alla Senna, ma avrei pagato caro per trovarmi altrove. Sotto il soprabito, strinsi il calcio del mio revolver. Alla fine, il ponte di Tolbiac apparve davanti ai nostri occhi. Basso, piatto, anonimo, me l'ero immaginato in stile espressionista, tutto armature e merletti di ferro arruginito. Un altro mito che cadeva. Risalimmo fino al livello del viale per poter attraversare il famigerato ponte. Mi sentivo più cagasotto che mai e strinsi i denti fino tanto da farmi saltare le mascelle.

(Bertrand Delcour, Sfida al ponte di Tolbiac)
  Il primo mezzo litro di 1664 aveva un retrogusto metallico. Senza dubbio perché non potevo più togliermi dalla testa che questo numero era una data, quella della battaglia di Kronenbourg. Una cazzata che avevo sentito, un giorno, vicino a un bancone quasi uguale, bronzo un po' battuto, o zinco lucidato, non so mai. Il cartone umido, sul quale appoggiai con dei gesti lenti il fondo del bicchiere, mi preannunciava, tuttavia, i benefici di un'altra marca. La mescolanza di generi.
  E il secondo mezzo. Era pazzesco quello che mi ero scolato in quel momento. Da due giorni. Da quando Suzanne è a uno stage a Poitiers. Da quando ho approfittato di questo celibato temporaneo per prendere quattro giorni di congedo. Ho fatto i conti, avrò un week end in meno durante le vacanze di Natale, ma va be', Suzanne non dirà nulla; in inverno lei preferisce restare a Parigi, al caldo. Non vede cosa andrebbe a festeggiare altrove.
  Jérôme, tanto, non si beccherà un cenone di capodanno famigliare. Jérôme è mio figlio, il mio gran figlio, quel gran coglione di mio figlio. Insomma... dico così per dire. Per mancanza di pazienza e di immaginazione. Devono essere i mezzi, la battaglia di Kronenbourg, tutte 'ste cazzate.

(Jean-Bernard Pouy, Il cattivo seme)
  Spade Cooley e i suoi ragazzi sul podio. Spade al microfono con Burt Arthur "Deuce" Perkins al basso. Lo chiamavano Deuce perché s'era fatto due anni: atti contro natura con cani. Spade fumava oppio; Deuce si faceva di ero: da un momento all'altro potevano essere tutt'e due facile bersaglio di un servizio su Hush-Hush. Max Peltz dava dei grandi gesti di benvenuto agli operatori; accanto a lui c'era Brett Chase, che parlava con Billy Dieterling, il cameraman in capo. Billy non perdeva d'occhio il suo bello, Timmy Valburn, il Moochie Mouse di Dream-a-dream Hour. Appoggiati alla parete di fondo c'erano dei tavoli carichi di bottiglie e di cibi freddi. Vicino alle provviste c'era Kikey Teitlebaum: probabilmente Peltz aveva ordinato tutto al suo negozio. Kikey stava parlando con Johnny Stompanato: due ex di Mickey Cohen a conciliabolo. Attori, attrezzisti e operatori mangiavano, bevevano e ballavano.
  Jack accompagnò Karen in pista: qualche volteggio su una serie di ritmi veloci, poi guancia a guancia, quando Spade passò ai lenti. Karen teneva gli occhi chiusi; Jack bene aperti: meglio non farsi vedere troppo preso. Un colpetto sulla spalla.
  Miller Stanton chiedeva la dama. Karen aprì gli occhi e restò a bocca aperta: un divo della TV che la invitava a ballare. Jack fece un mezzo inchino: - Karen Morrow, Miller Stanton.
  Karen strillò, al di sopra della musica: - Salve, ho visto tutti i vecchi film di Raymond Dieterling con lei. Era grande!
  Stanton la prese per mano in modo molto formale, - Ero un bamboccio. Jack, va' un momento da Max. Vuole parlarti.
  Jack si portò sul retro del set: tranquillo, musica a basso volume. Max Peltz gli porse due buste. - Il tuo extra stagionale e un contributo per Mr. Loew. Da parte di Spade Cooley.
  La busta per Loew era piuttosto gonfia. - Cosa vuole, Cooley?
  - Una specie di assicurazione, credo. Che non interferiate sulle sue abitudini.
  Jack accese una sigaretta. - Spade non m'interessa.
  - Non è abbastanza famoso?
  - Sta' buono, Max.
  Peltz gli si fece vicino. - Jack, cerca di star buono tu, perché ti stai facendo una brutta fama nell'ambiente. La gente comincia a dire che stai esagerando, che non stai al gioco. Hai spremuto Brett per conto di Loew, e va be': Brett è un maledetto finocchio, se l'è voluta. Ma non puoi sputare nel piatto in cui mangi: in fondo, qui da noi, un tipo su due si fa una fumatina ogni tanto. Ricomincia a prendertela con i neri: quelli del jazz fanno sempre notizia.
  Jack diede un'occhiata al set. Brett Chase era con Billy Dieterling e Timmy Valburn: una vera e propria assemblea di culi. Kikey T. e Johnny Stomp continuavano a chiacchierare: Deuce Perkins e Lee Vachs li stavano raggiungendo. Peltz disse: - Sul serio, Jack. Stai attento.
  Jack indicò i due duri. - Max, stare attento è il mio mestiere. Vedi quei tipi laggiù?
  - Certo. Cosa c'en...
  - Max, quella, in termini tecnici, si chiama riunione di noti pregiudicati. Perkins è stato dentro perché è uno scopacani e per di più ha fatto da autista in un bel numero di rapine. Abe Teitlebaum è in libertà vigilata. Il tipo alto coi baffi è Lee Vachss: ha fatto fuori almeno una dozzina di persone per conto di Cohen. Il guappo di bell'aspetto è Johnny Stompanato: non credo che abbia compiuto i trent'anni, ma ha una fedina lunga come il tuo braccio. Il dipartimento di polizia di Los Angeles mi ha conferito la facoltà di fermare quei succhiacazzi anche in base a un sospetto generico: anzi, non facendolo, manco a un preciso dovere. E non lo faccio proprio perché "sto attento".
  Peltz agitò il suo sigaro. - Be', continua così. E vacci molto piano con queste storie di noti pregiudicati e stai attento: Miller sta puntando la tua preda. Gesù, ti piacciono giovani, eh?
  Voci che correvano: a Max piacevano le ragazzine che andavano ancora a suola. - Meno giovani che a te.
  - Ah! Vattene, fottuto imbroglione. La tua ragazza ti sta cercando.


(James Ellroy, L.A. Confidential)

domenica 19 agosto 2012

  - Vecchio mio - disse Blédard, mentre tutti si agitavano intorno a loro - in realtà credo che non ti dirò chi era l'informatore. È meglio, per ragioni che non devo stare a spiegarti.
  Il prefetto rise vedendo l'espressione avvilita di Paulo. La prospettiva imminente dello champagne lo metteva, lui, di ottimo umore. Ciò spiega senza dubbio come si fosse lasciato andare a un contatto fisico che non era nel suo carattere. Rifilò a Paulo una pacca sulla spalla contemporaneamente a questa massima:
  - Solo nei romanzi gialli alla fine si scopre come sono andate realmente le cose.
  Quattro piani più in alto, senza darsi la pena di sporgersi fuori, Simon richiuse la finestra, esasperato dal rumore. Probabilmente dei bambini che spaccavano delle vetrine. Per quel che gliene fregava... Tornò allo schermo e scrisse:
  "Il commissario tirò dall'eterna pipa bianca che non si era neppure dato la pena di accendere, fissò per qualche secondo i ceppi che ardevano vivacemente e iniziò: - Eppure è semplice, ora vi spiego...".

(Serge Quadruppani, La salita della Courtille)
  È lì da un'eternità, gli sembra. Impressione assolutamente soggettiva, dovuta al rigore della temperatura che viaggia sotto il fatidico zero da una quindicina di giorni. L'acqua gela nei canaletti di scolo, i senzatetto sotto i portoni indifferenti. In preiferia ha nevicato; i fiocchi fanno sempre fatica a passare la tangenziale. Il sale sparso per la rete viaria imbianca le strade. Autunno piovoso, inverno precoce, non ci sono più le stagioni di una volta, si sa.

(Jean-Hugues Oppel, Tutti sanno dov'è, Alésia)
  Non potrebbe dire quanti colpi dei fratelli kabili si è beccato, ma hanno sparato almeno sei volte; sì, sei volte. È stato Farid che, come sempre, ha vuotato il calibro della sua grossa Magnum; Kamel guidava la Kawa ZXR, i due fratelli sembravano degli extraterrestri dietro la visiera fumé dei loro caschi. Sono usciti dal nulla, i bastardi. Non c'erano e di colpo erano lì. Cazzo, l'unica fortuna che ha avuto è che la pallottola destinata alla testa è finita contro il volante, fracassandolo completamente, e gli ha sfiorato solo la tempia. Un bacio di metallo rovente a trecentocinquanta metri al secondo. È quella che gli ha fatto perdere i sensi, ma non è quella che gli procura più dolore. Ne ha diverse disseminate dalla pianta dei piedi alla laringe, ma la sofferenza si concentra nella pancia, lì dove continua a pisciare sangue.
  Una cosa seria, il calibro dei fratelli kabili. Armi da poliziotti, sicuramente (gli infami, con tutti i loro ragazzi dentro la Buoncostume), Manhurin MR73 o Spécial Police. E munizioni d'élite, pallottole Winchester calibro 357 Magnum, scamiciate, che fanno grossi fori quando entrano e ancora di più quando escono, se non decidono di alloggiare comodamente nella colonna vertebrale, come raccontano fieri ogni volta che esibiscono i loro giocattoli alle ragazze, affascinate come se avessero davanti due grossi falli cromati e lustrati. I figli di puttana.
  E mentre l'odore degli escrementi invade l'universo, si sorprende a piangere. Qualche minuto dopo, il dolore spegne anche quest'ultima traccia di umanità.
  Comincia a gemere come un animale ferito dalla trappola che lo sta uccidendo. Trema. La paura e la sofferenza sono come tante pere iniettate a ripetizione.
  Disteso sui due sedili anteriori, è scosso da un singhiozzo e cominaia a vomitare un miscuglio confuso di sangue e materia irriconoscibile, poi sviene una seconda volta.
  L'ultimo barlume di coscienza gli urla che sta per morire.

(Maurice G. Dantec, Quando lampeggia la morte elettrica)

martedì 14 agosto 2012

  Meeks prese il fucile e cominciò ad aprire le porte a calci, una dopo l'altra. Una, due, tre, quattro... ragnatele, topi morti, cessi rotti, avanzi di cibo, giornali in spagnolo. I trafficanti probabilmente usavano quel posto per tenerci parcheggiati i messicani prima di portarli a lavorare come negri su nelle fattorie della contea di Kern. Cinque, sei, sette... tombola: un gruppo di messicani, due o tre famiglie, accovacciati sui materassi, sobbalzarono alla vista di un bianco con il fucile. "Calma, calma" aveva detto, tanto per tenerli buoni. Le ultime camere erano vuote. Meeks prese la borsa e la lasciò cadere davanti alla porta della numero dodici: posizione centrale, vista sul cortile, un materasso che perdeva l'imbottitura. Non male per la sua ultima notte in America.
  Un calendario con delle donnie alla parete. Andò a cercare il mese di aprile e cercò il giorno del suo compleanno. Era di mertedì. La ragazza aveva dei brutti denti, non era un granché e gli ricordava Audrey: ex spogliarellista, ex ragazza di Mickey. Per lei aveva ucciso un poliziotto e aveva fatto irruzione a mano armata nel posto dove Cohen e Dragna combinavano il loro grosso affare di droga. Fece scorrere le pagine fino a dicembre e si chiese che probabilità aveva di restare vivo per tutto l'anno. Provò una fitta di paura. Sentì che gli si contraeva lo stomaco e una vena sulla fronte si metteva a pulsare. Era coperto di sudore.

(James Ellroy, L.A. Confidential)
  Orologio alla mano, l'orchestra si concesse tre secondi di pausa, il tempo di farsi un bicchiere, e iniziò un altro brano trepidante, bebop puro. Alcune coppie invasero la pista in terra battuta dando al profano l'impressione di sistemare una faccenda familiare. Gli uomini stringevano le donne, le attiravano improvvisamente a loro, le allontanavano con la stessa dolcezza. Loro indietreggiavano piroettando, la gonna orizzontale - per quelle che la portavano, chiaramente - che scopriva orizzonti insospettati e provava la superiorità di quel capo d'abbigliamento femminile rispetto agli odiosi pantaloni. Poi tornavano alla carica, aggressive, il busto teso con arroganza, a rischio e pericolo di far esplodere il reggiseno.
 
(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Ci misi quasi due giorni interi a riprendermi.
  Sentii una mano leggera passarmi sul viso una pezza fresca e profumata. Aprii gli occhi. Ero a casa mia, nel mio letto. Un'adorabile capigliatura castana con dolci riflessi di un rosso autunnale, bel bon bon ambrato, mi vegliava. Io mi faccio vegliare dalle capigliature. È più originale. Capigliatura e mano appartenevano a Hélène, la ben nota graziosa. Essere malati diventava un piacere.
  "Ho l'impressione di averle prese di brutto", dissi.
  La mia voce risuonava chiara, con tutta la sua solita forza. La mia voce mi piaceva.
  "Sì", disse Hélène. "Ma ha soprattutto commesso un'imprudenza, ha voluto fare il Nestor Burma fino in fondo. Come al solito".
  "Cos'è successo, amore mio?".
  "Sembra che se si fosse limitato a svenire senza cercare di reagire... se fosse rimasto tranquillo, steso nell'androne, ad attendere un ritorno naturale dello stato di coscienza... o più semplicemente che qualcuno la trovasse... sarebbe stato infinitamente meglio per la sua salute. L'ha detto il dottore".
  "E invece cosa ho fatto? Ho ballato il jitterbug?".


(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Forse era l'effetto della stanchezza e dei postumi della sbornia, o il ricordo, ancora presente nelle mie narici, della camera da letto del morto. Niente appariva pulito, né schietto, in quel pasticcio. Fiutavo qualcosa di profondamente schifoso, di incredibilmente viscido. Ci sono dei giorni così, in cui la malinconia si taglia con il coltello.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)

domenica 12 agosto 2012

  Il tragitto che portava alla famosa Cave-Bleue era disseminato di insidie. Prima di tutto si inciampava contro le pattumiere che aspettavano i netturbini sotto il portico del passage Dauphine. Poi, si rischiava di slogarsi una caviglia sui soliti acciottolati irregolari che fanno il fascino di questo genere di posti. E non era tutto. La cosa più difficile era ancora da farsi: raggiungere l'ingresso della cantina. Davanti alla porta bassa, sopra la quale la scritta "Cave-Bleue" era tracciata in un carattere confuso su un'asse di legno fiancheggiata da due lanterne dalla forma bizzarra, si ammassava una folla compatta, che vociferava e lanciava grida animali. Pioveva su tutta quella gente ma, di tanto in tanto, come se non fosse abbastanza, da una finestra dei piani superiori arrivava ad aggiungere una nota di freschezza anche qualche secchio d'acqua, nel migliore dei casi, accompagnato dalle imprecazioni del mittente che avrebbe voluto dormire un po'. Due donne in abiti da sera molto scollati, originarie del Nuovo Mondo e più o meno contemporanee di Abramo Lincoln, già vittime di una di queste cateratte supplementari, trovavano simili intermezzi molto divertenti ed exciting, e reclamavano a squarciagola un'altra aspersione. Che, in genere, non si faceva attendere. Chissà quanto pagavano per le bollette dell'acqua gli abitanti del posto. Sembra proprio che grazie ai guadagni senza eguali che è riuscita a realizzare in questo quartiere, la Compagnie de Distribution abbia potuto dar corso alla riparazione delle tubature in altri arrondissement praticamente a costo zero.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Chiusi la finestra e girai l'interruttore. La punta incandescente della Gitane accesa di Hélène era la sola luce a bucare l'oscurità. La mia segretaria sospirò:
 
«Non fa certo freddo».
 
«Se ha troppo caldo, si svesta».
 
«Non dica sciocchezze».

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)

sabato 11 agosto 2012

  Una morte che "La Vipère lubrique", un settimanale che usciva il martedì, giudicava misteriosa. Ma per la lubrica rubrica della rivista non esistevano decessi normali. Erano tutti provocati dalla mano della congrega massonica succube dei gesuiti. Era la forma mentis dominante del settimanale e non l'avrebbero cambiata nel 1955 unicamente per farmi cosa gradita.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Mi trascinai verso quai des Grands-Augustins. Mi sentivo a pezzi, sporco come un maiale, con effluvi di sudore rancido nella bocca impastata. Al Café de l'Ecluse lo scafandro che fa la guardia nella vetrina del cabaret animato da Léo Noël mi fece gli occhiacci. Non mi sarebbe bastato uno scafandro per continuare a restare a galla in quella squallida storia. Mi ci sarebbe voluta anche una solida armatura. La faccenda stava prendendo una piega alquanto bizzarra. Rischiavo di lasciarci la pelle di contribuente medio a reddito variabile senza il minimo sindacale garantito. Certo, quello che intravedevo rendeva più piccante il piatto, ma con il piccante bisogna fare attenzione per non mandare a fuoco la bocca. Piano, Nestor!

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  L'Echaudé stava aprendo in quel momento. Il personale era rappresentato da Louis, il barista, e un altro cameriere. Henri non arrivava mai prima delle dieci. Louis sventolava uno straccio sul bancone e il collega stava finendo di sistemare le sedie attorno ai tavoli. La radio diffondeva in sordina un brano lento per pianoforte. Nessun altro rumore. Quasi nessuna luce. Solo un'applique in servizio, nell'angolo più lontano. Non troppo caldo. Nessun cliente a parte Marcelle che fumava una Gauloise, seduta sotto il manifesto di Chéri-Bibi e davanti a una consumazione che non aspettava che l'arrivo del Chéri-Burma per essere rinnovata.
 
(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Siamo a quattro notti dalla luna piena e c'è un quadrato di luce lunare sulla parete e mi sta fissando come un grande, cieco, lattiginoso occhio, un occhio di muro. Sciocchezze. Un paragone maledettamente stupido. Gli scrittori. Tutto deve ricordare qualcos'altro. Ho il cervello soffice come panna montata, ma non altrettanto dolce. Altre analogie. Vomiterei solo pensando allo schifoso mestiere. Vomiterei in ogni caso. Probabilmente vomiterò. Non incalzatemi. Datemi tempo.
(Raymond Chandler, Il lungo addio)

venerdì 10 agosto 2012

  Il tizio che vidi uscire dal palazzo dove, al momento, abitava Bernard Lebailly mi colpì per l'aspetto funereo. Facce simili le avevo viste solo dagli esattori, dalla parte sbagliata dello sportello. O a Bagneux, dietro ai carri funebri e tra i cipressi. Era un uomo nel pieno degli anni, di statura media, corporatura normale, con addosso un sobrio completo confezionato di un colore neutro, destinato, se non avesse avuto quell'aria venefiac che si sprigionava dall'insieme, a passare inosservato. E forse era quello che gli accadeva nella vita quotidiana tra i comuni mortali. Ma io possiedo un naso organizzato per fiutare "le cose che sono dietro le cose", come dice Michel Krauss, il pittore di Quai des Brumes. Innanzitutto pensai che fosse cieco. E questo per via dei suoi occhi, riparati sotto arcate prominenti, in un viso freddo, inespressivo e lontano, occhi che non vivevano, spenti, di un'indicibile e toccante malinconia. Rattristati. Di una tristezza interiore, che si sentiva senza dover ricorrere alla fascia da lutto e altre smancerie. L'aria di un vedovo. Non saprei meglio caratterizzare il personaggio. E per me questo descrive perfettamente ciò che voglio dire. Non ho mai evocato senza malessere lo stato di vedovanza di un uomo. Per le vedove non è la stessa cosa. Forse a causa di quella celebre e allegra che esercita un'influenza sulle consorelle, anche se piegate dal dolore. Ma un vedovo! È senza appello, irrimediabile, colpito da maledizione, smarrito. Per me è legato a un'atroce idea di mutilazione sessuale.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)

  Ricominciai a scherzare: 
«Impossibile fermare il progresso. Dopo le balestre, l'artiglieria. Dopo l'artiglieria, i missili atomici. Nestor Burma sta al passo. Una volta, ai bei tempi andati, usavano il manganello contro di me. Oggi mi stordiscono a suon di portoni. Non dispero, se un giorno un'inchiesta mi dovesse portare nel VII arrondissement, di poter ricevere la Torre Eiffel stessa sulla capoccia».
 
(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Mi voltai e chiusi la porta. Sembrò una buona idea in quel momento. Quando mi girai verso di lei, mi stava cadendo fra le braccia. E così l'afferrai. Non avrei potuto farne a meno. Si strinse forte contro di me e i suoi capelli mi sfiorarono il viso. Alzò la bocca verso la mia per essere baciata. Tremava. Socchiuse le labbra, dischiuse i denti, e la lingua dardeggiò. Poi abbassò le mani e strappò qualcosa, e la vestaglia che indossava si aprì, e sotto la vestaglia era nuda come una mattinata di settembre, ma maledettamente meno pudica.
(Raymond Chandler, Il lungo addio)
  A casa, quando ci tornai, appostate nella buca delle lettere mi aspettavano due fatture adulte cresciute piuttosto bene. Dovevano trovarsi lì da sabato sera e sembrava che avessero approfittato della domenica per ingrassare. Alcune fatture mi fanno quell'impressione. Una era rosa chiaro, sembrava un rossetto molto apprezzato, l'altra era invece di un azzurrino adatto a un abito primaverile. Oggigiorno esistono anche carte così. Irresistibili. Talvolta i creditori ricorrono a certe malizie. Presto le avvolgeranno nei reggiseni per farti perdere ogni controllo. Appoggiai le fatture sul sottomano, ben distanziate tra loro per evitare qualsiasi pericolo di proliferazione, e presi il telefono che suonava a festa:
 
«Qui Nestor Burma», annunciai.
 
«Ah! finalmente...».
  La voce del signor Jérôme Grandier.
 
«È da sabato che cerco di raggiungerla, inutilmente».
 
«Weekend», risposi. «Ci sono novità?».
 
«Più o meno. Mi piacerebbe parlarne con lei».
 
«Volentieri. Quando?».
 
«Appena ha un momento».
  Non sembrava più avere tanta fretta.
 
«Prima è, meglio è», fecero le fatture.
 
«Prima è, meglio è», dissi io nell'apparecchio.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  «È il mio vero cognome», approvò Germain Saint-Germain. «Bergougnoux. Albert Bergougnoux. Non solo il nome non è un granché, ma quelle due sillabe identiche che si susseguono non lo migliorano affatto. Ammetterà che Bergougnoux non è proprio brillante e che dovevo trovare qualcos'altro per firmare le mie opere».
  "Le mie opere" risuonò in modo molto particolare: ne aveva talmente piena la bocca che c'era da chiedersi se riuscisse ancora a respirare.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  Il mio ospite chiamò il cameriere incaricato del servizio in sala e il ragazzo si affrettò a prendere l'ordinazione e a portarci ciò che avevamo chiesto. Accanto a noi, la coppia dall'aspetto cinematografico recitava la parte del bacio fino al soffocamento. Sembrava che nessuno dei due soffrisse d'asma.

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
  In rue du Pont-de-Lodi la casa indicatami da Hervé era accanto al magazzino della NMPP. Era un edificio di camere in affitto di modestissimo aspetto e che non doveva rendere molto ai proprietari. La portinaia ricordava solo da molto lontano Martine Carol.
  «Polizia»
, dissi, con il tono di uno sbirro impaziente sventolandole sotto il naso una tessera del Touring Club, tanto per farle vedere un po' di mondo.
 

(Léo Malet, La notte di Saint-Germain-des-Prés)
   Non capita spesso di trovare Fred Baget in compagnia di una bella donna soltanto. Attorno a lui, di solito, ce n'è una schiera. Mi chiedo quale sia il suo segreto. E' vero che è un pittore, un pittore "molto parigino", per così dire. E, come se non bastasse, abita all'Ile Saint-Louis, altro elemento a favore della sua denominazione di origine controllata. Lui e io non siamo proprio intimi, amici per la pelle, ma ci conosciamo abbastanza perché, di tanto in tanto, mi inviti a bere qualcosa da lui. E io non rifiuto mai. Non sono contrario a una bella lustratina d'occhi - fa bene alla vista - e da Fred Baget, su questo versante, si è sempre certi di non restare delusi. Lo ripeto, di norma il suo atelier e l'appartamento connesso brulicano che è una meraviglia di belle ragazze svestite, o perché stanno posando davanti al maestro, in un gruppetto di grazie che lui fissa sulla tela, o perché, in abito da sera scollato davanti e dietro, partecipano ad uno dei ricevimenti che l'artista ama spesso dare.
   Ma in via del tutto eccezionale, il giorno di cui parlo, un pomeriggio nebbioso di febbraio, c'è una sola donna da Fred Baget, distesa su un divano basso in una stanzetta dall'incerta destinazione.
   Non è nuda, ma è morta.

(Léo Malet, Pandemonio a Rue des Rosiers, pag. 1)