lunedì 24 dicembre 2012

  «È già tutto stabilito» l'interruppe Spade. «Il punto è: lei cosa vuol fare? È dentro o fuori?»
  Benché il suo sorriso esprimesse una certa tristezza, addirittura una certa afflizione, il grassone annuì. «Non piace neppure a me,» disse rivolto al levantino «ma a questo punto non abbiamo scelta. Nessuna.»
  «Allora, cosa decide, Cairo?» tornò a chiedere Spade. «Dentro o fuori?»
  Umettandosi le labbra, il levantino si girò lentamente verso di lui. «Mettiamo che...» disse, e deglutì. «Ho facoltà...? Posso scegliere?»
  «Certo che può» lo rassicurò Spade in tono grave. «Sappia però che se la risposta è fuori, insieme al suo amichetto scarichiamo anche lei alla polizia.»
  «Su, via, Mr Spade» intervenne Gutman. «Questo non...»
  «Col cavolo che lasciamo che ci volti le spalle. O con noi o in galera. Non possiamo permetterci di lasciare niente in sospeso.» Guardò accigliato il grassone e sbottò, irritato: «Cristiddio! Cos'è, la prima volta che rubate qualcosa? Bella manica di angioletti! E poi cosa pensate di fare? Inginocchiarvi e pregare?». Puntò quello sguardo accigliato su Cairo. «E allora? Ha deciso?»

(Dashiell Hammett, Il falcone maltese, 1930)
  Spade sbuffò e scuffiò. Si sporse in avanti, tornando ad appoggiarsi con gli avambracci sulle ginocchia, e interruppe il grassone, seccato: «La polizia non mi preoccupa affatto e so come affrontarla. E questo è appunto quanto sto cercando di dirle. L'unica maniera di affrontarla è di darle in pasto una vittima, qualcuno su cui scaricare tutto».
  «Bene, Mr Spade, le concedo senz'altro che questa è la maniera di procedere, ma...»
  «Ma un corno!
È l'unica maniera!» sbottò Spade, la fronte aggrottata e rossa, gli occhi accesi e rossi. Il livido alla tempia era color fegato. «So quello che dico. Ci sono già passato altre volte, e altre ancora ci passerò. Prima o poi, mi tocca sempre mandare tutti a quel paese, dalla Corte suprema all'ultimo scagnozzo, e tuttavia riesco a cavarmela. Me la cavo perché tengo comunque presente che alla fine c'è sempre una resa dei conti. Cioè non dimentico mai che quando questa arriva devo presentarmi alla centrale tirandomi dietro un colpevole e annunciando: "Eccovi il vostro criminale, amici del cuore". Se lo faccio, e fino a quando lo faccio, posso portarmi il pollice al naso e sventagliare il resto delle dita a tutte le leggi del Codice. Non lo faccio una sola volta, e sono nei guai. Non è ancora successo e non succederà neppure questa volta. Questo è certo.»
  Gutman sbattè le palpebre e la mellifluità del suo sguardo parve attenuarsi, ma tutto il resto del faccione roseo rimase immutato nella fissità del sorriso compiaciuto, mentre nella voce non risuonava la minima nota di disagio. «
È certamente un sistema che ha i suoi lati positivi, Mr Spade...» disse. «Accidenti se li ha! E fosse applicabile anche in questa occasione, sarei il primo a dirle: "Faccia pure, si figuri!". Ma si dà il caso che stavolta non sia purtroppo applicabile. Può succedere, anche con i migliori sistemi. Capita insomma la volta in cui bisogna fare un'eccezione, e chi ha un briciolo di ingegno non esita a farla. Ebbene, Mr Spade, questo è proprio il caso, e non esito a dirle che secondo me lei dopotutto è ben pagato per fare appunto questa eccezione. Magari le sarebbe più facile e comodo consegnare il suo colpevole alla polizia, ma» rise e allargò le braccia «lei non è tipo da annegare in un bicchier d'acqua. Sa come cavarsela, come cascare alla fine ssempre in piedi, qualunque cosa accada.» Sporse le labbra in fuori e socchiuse un occhio. «Se la caverà.»
  Dagli occhi di Spade era scomparssa ogni fiamma, il viso era divenuto inespressivo e impassibile. «So quello che dico.» Parlava a voce bassa, in tono esageratamente paziente. «Questa è la mia città e questo è il mio mestiere. Certo stavolta magari riuscirei anche a cascare in piedi, ma la prossima, se solo ci riprovassi, mi farebbero lo sgambetto e mi ritroverei con il culo a terra. All'inferno. E voi intanto stareste a New York o a Costantinopoli o a casa del diavolo. Io qui ci lavoro.»

(Dashiell Hammett, Il falcone maltese, 1930)
  - Interrogavo il testimone, - disse Adamsberg appoggiando su una sedia la giacca appallottolata.
  - Gliene serve, di tempo, commissario.
  - Sì.
  - Ha saputo qualcosa?
  - La circonferenza del cuore di una pratolina. Di una pratolina piuttosto grossa.
  - Non abbiamo tempo per giocherellare, penso che glielo abbiano fatto capire bene.
  - E' un tipo difficile e ha motivo di esserlo. Ma sa un sacco di cose.
  - C'è urgenza, commissario, e ho degli ordini. Non le hanno insegnato che qualunque tizio "difficile" ce lo si può lavorare in meno di un quarto d'ora?
  - Sì.
  - Cosa aspetta?
  - Di dimenticarmene.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  Fine. Per quella sera non ne avrebbe più venduta nemmeno una. Troppo freddo, troppo tardi, le strade si erano svuotate, erano quasi le undici in place Maubert. L'uomo si diresse verso destra, spingendo il suo carrello, a braccia tese. Quei maledetti carrelli da supermercato non erano strumeti di precisione. Ci voleva tutta la forza dei polsi e una bella conoscenza dell'aggeggio per mantenerlo nella giusta direzione. Era testardo come un asino, si spostava di sbieco, resisteva. Bisognava parlargli, insultarlo, maltrattarlo; ma, come l'asino, permetteva di trasportare una bella quantità di mercanzia. Testardo ma fedele. Il suo carrello l'aveva chiamato Martin, per deferenza verso tutto il lavoro che si erano sciroppati gli asini di una volta.
  L'uomo parcheggiò il carrello vicino a un palo e lo legò con una catena a cui aveva attaccato un campanaccio. Guai al bastardo che avesse voluto fregargli il carico di spugne mentre dormiva, avrebbe trovato pane per i suoi denti. Di spugne, se quel giorno ne aveva vendute cinque era un miracolo. Venticinque franchi in tutto, più i sei avanzati da ieri. Prese il sacco a pelo da una borsa appesa sotto il carrello, si sdraiò su una griglia della metropolitana e si avvolse ben stretto. Impossibile andare a riscaldarsi nel metrò, avrebbe dovuto abbandonare il carrello per strada.
È così: quando hai un animale, devi fare dei sacrifici. Non avrebbe mai lasciato Martin da solo lì fuori.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  I telefoni avevano suonato molto, c'era stata ogni sorta di andirivieni, agitazione, istruzioni, ordini. Un allarme generale perché una donna in pelliccia si era fatta ammazzare. Di sicuro, se si fosse trattato di Monique, la signora dell'edicola che gli lasciava leggere le notizie tutte le mattine alla precisa condizione di non aprire il giornale fino alla piegatura, sicché del mondo conosceva solo una metà longitudinale senza mai raggiungere il nocciolo, di sicuro, se si fosse trattato di Monique, non ci sarebbero stati dieci poliziotti a correre da un ufficio all'altro, come se l'intero Paese stesse sprofondando in mare. Avrebbero aspettato tranquillamente l'ora del caffè per trascinarsi fino all'edicola a constatare i danni. E non avrebbero telefonato a mezzo mondo. Mentre per la donna in bianco avevano svegliato tutta la capitale, a quanto pareva. Per quella donnetta che non aveva mai strizzato una spugna.

(Fred Vargas, Cinque franchi l'una, 2000)
  La donna grassa volò al di sopra del parapetto del ponte National fino alle acque nere della Senna. Il fiume scorreva veloce, spinto da un vento gelido. Nessuno per strada, nessuno che fosse lì a vedere. Bar chiusi, taxi assenti, città deserta. Il Natale è una festa domestica, interna. Fuori non filtra niente. Persino i solitari irriducibili si radunano in un'osteria con due bottiglie e quattro imbecilli. La solitudine, il vagabondaggio, sopportabili e a volte addirittura sfoggiati spavaldamente nel resto dell'anno, sembrano di colpo un disonore infamante. Il Natale getta l'obbrobrio su chi è solo. Così, prima di mezzanotte tutti si sono rintanati. La donna grassa volò in acqua senza che nessuno s'immischiasse.

(Fred Vargas, La notte efferata, 1999)
  Gli fornii i dati. Disse che richiamava tra un quarto d'ora.
  Gironzolai per la stanza, piantandomi le unghie nelle mani, cercando di tenermi su. Avevo di nuovo la gola incordata. Mi rimisi a borbottare, masticavo e rimasticavo quello che avevo appena detto a Ike. Il telefono squillò. Risposi. Mi aveva fatto i conti, disse, e cominciò a darmeli. Con tre soluzioni diverse, perché avessi tutto il quadro. Durò venti minuti. Io prendevo nota. Mi sentivo il sudore sprizzare sulla fronte e colarmi giù dal naso. Terminò.
  «
Okay, Ike, è proprio quello che mi serviva di sapere. Punto per punto. Grazie infinite».
  Appena riappese crollai. Mi precipitai in bagno. Vomitai, non ero mai stato così male in vita mia. Dopo mi buttai a letto. Passò molto tempo prima che potessi spegnere la luce. Rimasi lì con gli occhi fissi nel buio. A tratti mi prendeva un gelo, o cosa, e mi mettevo a tremare. Passava e restavo come intontito. Poi cominciai a pensare. Non volevo, ma i pensieri mi strisciavano addosso. Capii cosa avevo fatto. Avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo per avere una donna. Mi ero messo nelle sue mani, e così al mondo c'era una persona che poteva puntare il dito su di me e sarei morto. Avevo fatto tutto questo per lei, e non la volevo rivedere finché vivevo.
  Tanto basta, una goccia di paura, per cagliare l'amore in odio.

(James M. Cain, La morte paga doppio, 1936)
  Pensate che io sia matto? Va bene, sarò matto. Ma fate per quindici anni il mio lavoro, e forse ammattirete anche voi. A voi sembra un lavoro come il vostro, no, e magari un po' meglio, perché è amico della vedova e dell'orfano, e aiuta chi è nei guai? Macché. È una roulette, la più grossa ruota d'azzardo del mondo. Non sembra, ma lo è, dal modo in cui calcolano la percentuale di rischio alla faccia che fanno quando incassano i vostri gettoni. Tu scommetti che la tua casa brucerà, loro scommettono che non brucerà, tutto qui. Quello che ti imbroglia, è che tu non desideravi che ti bruciasse la casa quando hai fatto la scommessa, e così dimentichi che è una scommessa. Loro non si imbrogliano. Per loro una scommessa è una scommessa, e questa non è diversa da tutte le altre. Ma viene il momento, magari, in cui tu vuoi che la tua casa bruci, perché i soldi valgono più della casa. E qui cominciano i guai. Loro sanno che ce n'è di gente, là fuori, che cerca di truccare la ruota, e con quelli diventano duri. Hanno le loro antenne, là fuori, conoscono tutti i trucchi, e se vuoi fregarli ti conviene essere in gamba. Finché sei onesto ti pagano col sorriso sulle labbra, e puoi anche andartene a casa pensando che è stato tutto un bel gioco, pulito. Ma prova a fare il furbo e vedrai.
  Allora, io sono un agente. Sono un croupier di quel gioco. I trucchi li conosco tutti, sto sveglio la notte a pensarci, per essere pronto quando ci provano. E poi una notte ne invento uno, di trucco, e mi metto a pensare che quella ruota potrei imbrogliarla io, se avessi un compare là fuori per piazzare la mia scommessa. Tutto qui. Con Phyllis avevo trovato il mio compare. Magari vi sembrerà strano, che io fossi disposto a uccidere un uomo soltanto per raccattare un mucchietto di gettoni, ma forse non vi sembrerebbe tanto strano se foste dietro a quella ruota, invece che davanti. Avevo visto bruciare tante di quelle case, tante auto fracassate, tanti morti con un buco blu nella tempia, tante cose tremende che fa la gente per falsare la ruota, che a me quella roba non sembrava più reale. Se non capite, andate a Montecarlo o in qualche altro posto dove c'è un grosso casinò, sedetevi a un tavolo, e guardate la faccia del tizio che fa girare la pallina d'avorio. Dopo un po' che lo guardate, chiedetevi cosa gliene importerebbe, a quello lì, se uscite fuori e vi piantate una pallottola in testa. Magari quando sente lo sparo abbasserebbe gli occhi. Ma non perché si preoccupa se siete vivi o morti. Solo per controllare se avete lasciato una puntata sul tavolo, che dovrebbe liquidare ai vostri eredi. Importargliene, no. Non a quel bimbo.

(James M. Cain, La morte paga doppio, 1936)
  Sono una vecchia lenza. Sono cresciuto ammirando, sul palcoscenico del vecchio Apollo e su quello non meno vecchio di Eltinge, Georgia Sothern, Gypsy Rose Lee, Anne Corio e altre celebri spogliarelliste, perciò ho ricevuto lezioni di anatomia femminile dalle migliori. Non c'è mai stata una forma o una misura che non sapessi sistemare in una categoria o in un'altra, da qualsiasi parte guardassi e, nello stesso tempo, con occhio clinico. Le donne sono donne. La controparte femminile. Si credono qualcosa di speciale, intelligenti, tenere, pneumatiche, terribilmente sexy, incredibilmente belle, con quel tanto di istintivo che ritengono possa far girare la testa a un uomo. Quasi nessuna corrisponde al modello. Be', qualcuna l'ho conosciuta.
  E adesso ne conoscevo un'altra.
  Si era fermata proprio in mezzo alla stanza e continuava a sorridere, beffarda e provocante, mentre si slacciava lentamente il vestito e lo lasciava cadere ai piedi.
 
«Così va meglio?»
  Annuii, ma distrattamente, perché non aveva certo lo stile di una Georgia Sothern. Quella sì sapeva spogliarsi! Lo faceva di solito sul ritmo di
«Hold that Tiger», ma oggi quella musica sembrerebbe sciocca. «Non sei niente male», le dissi.
 
«Posso bere qualcosa?»
  Assaggiai il mio whiskey al selz e mi allentai la cravatta.
«Se è questo di cui hai bisogno per non sentirti inibita, piccola, il bar è proprio dietro di te».
  Si alzò in punta di piedi; adesso indossava soltanto un reggiseno e uno slippino color carne. Mi guardò sorridendo come se eseguisse uno spettacolo completo.
«Ti piace?»
 
«Mi piace», ammisi.
  Infilò il pollice nello slippino e lo tirò giù di un buon dito.
«Ti piace?» La sua voce aveva un tono interrogativo molto provocante.
 
«Mi piace», ripetei.
  Si tolse il reggiseno. Ne uscirono due bei seni pieni, sodi alti, con tondi, insolenti capezzoli che spuntavano da scure aureole.
 
«Ti piace sempre?» chiese. Vidi i suoi occhi posarsi su di me che ero spaparanzato quanto son lungo sul mio vecchio divano. Per un attimo rimase perplessa.
 
«Sono un intenditore, bellezza».
  Tornò a sorridere e si tolse anche lo slippino color carne.
  Le donne nude sono belle. Accidenti se sono belle! Di qualsiasi forma e di qualsiasi misura, e quando sono costruite come le pinup che in guerra mettevamo nell'interno degli armadi e come quelle che ancora oggi appiccicano nelle autorimesse per farti distrarre dai conti delle riparazioni, ti possono spingere a qualsiasi sciocchezza.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)
  Spalancai l'uscio del bar e passai davanti ai ragazzi in basette e chioma fluente sulle spalle. Erano brutti da far paura, e le loro ragazze lo erano altrettanto. Solo puzzavano un po' meno, ma di un profumo artificiale; mi chiesi se se lo mettevano per mettere in risalto il poco che avevano o per coprire quello di cui mancavano. Un idiota fece quasi per accostarmi ma io gli strinsi il braccio un po' più forte del normale e quello subito si sbiancò e mi lasciò andare con un risolino poco sano di cui suo padre avrebbe dovuto guarirlo dieci anni prima, quando per lui c'era ancora speranza, a suon di ceffoni.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)
  Quasi senza accorgermene mi trovai in mano la calibro 45; il calcio era contro il mio palmo un oggetto familiare. Era nera, lucida, oleata, con l'impugnatura di noce; era una vecchia amica che da un pezzo mi accompagnava dappertutto.
  La rimisi nella fondina e mi affacciai alla finestra. Le nubi si rincorrevano fondendosi le une nelle altre, avvolgendo in un'oscurità prematura le torreggianti colonne di mattoni e di acciaio. Oh, sì, è una grande città, New York! Milioni di persone si rintanano come talpe nel sottosuolo o salgono lungo quelle rupi artificiali che sono i grattacieli per andarsi a chiudere nelle loro nicchie segrete. Per lo più sono soltanto esseri umani qualsiasi ma c'erano anche gli altri, i killer, e in quel momento ce n'era uno in libertà che apparteneva tutto a me.

(Mickey Spillane, Sopravvivenza zero, 1970)

venerdì 21 dicembre 2012

  - Mancano dieci minuti alle diciotto e noi cessiamo il servizio. Mandate qualcun altro -. Dalla centrale non viene risposta. Sarti Antonio, sergente, riattacca:
  - Ripeto: smontiamo alle diciotto... - Stavolta rispondono.
  È Raimondi Cesare, ispettore capo:
  - Non importa che ripeti, sergente. La tua è l'unica auto disponibile. Va' subito in via Irnerio 27.
  - E vabbe'. Le altre auto saranno a caccia di qualcuno che litiga sul piazzale delle autocorriere -. Prima di parlare, però, ha chiuso la ricevente: non si sa mai come la prende, quello.
  Appena arriva con l'auto 28 davanti al civico numero 27 di via Irnerio, una matta attraversa la strada di corsa, facendo bestemmiare una colonna di automobilisti che arriva fino al semaforo di via Indipendenza.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975)   
  L'ultimo tentativo lo fa a casa di Filippo Coco. Casa per modo di dire, perché più che altro è un posto dove si accatastano gli studenti, uno sull'altro come fossero cose. Lo schifo che mi fanno! Non gli studenti. State a sentire: arrivano in città, quei disgraziati che devono andare all'università e, naturalmente, non sanno dove andare a dormire; le iene gli si gettano sopra e hanno il coraggio di affittargli un buco (chiamato camera) dove ci sono sei letti, uno attaccato all'altro; e vogliono quarantamila lire al mese da ogni studente. Magari Filippo Coco o gli altri hanno pure provato a dormire sotto un portico, ma con l'inverno diventa difficile e allora non resta che tirar fuori le quarantamila, riscaldamento escluso.
  Ovvero il popolo che sfrutta i figli del popolo, in nome del popolo (e della cultura).
  Perché non potete venire a raccontarmi che chi affitta così le camere è un capitalista, sfruttatore che possiede tutto il centro storico, e quindi, o prendere o lasciare... No, cari miei. Quelli sono muratori che si sono comprati a rate un lurido appartamento nei pressi dell'università. Sono contadini che hanno trasformato in dormitorio pubblico il magazzino al piano terra che dà direttamente su un cortile senz'aria. Sono bottegai che la domenica hanno sputato l'anima per rendere passabile una soffitta che il nonno gli aveva lasciata piena di bauli e di polvere! Altro che balle! Venite a vedere: Filippo Coco ha il letto in un angolo che per raggiungerlo bisogna passare sopra altri cinque. La finestra dà direttamente sul marciapiede e se la aprono un momento, per cambiar aria, la camera si riempie di gas di scarico delle auto che non ci si vede più da qui a lì. C'è puzza di tutto: dal sudore all'orina, dalla muffa alla scoreggia.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975) 
  Che molti cittadini fossero schedati, lo avevo già letto da qualche parte, poi la cosa era rimasta fra il sì e il no e nessuno ne aveva più parlato. Ma vedere che anch'io sono nelle schede, mi ha fatto un certo effetto. È stato quando Sasrti Antonio, sergente, è andato al casellario penale, a cercare le cartelle segnaletiche dei quattro «irreperibili al loro domicilio». Si può sempre trovare qualcosa di interessante. Io, infatti, mentre Sasrti si fa i fatti suoi, ci trovo la mia scheda con tanto di foto e di impronte digitali. E ne imparo di quelle, sul mio conto, che, se non mi conoscessi da tanti anni, comincerei a sospettare di essere un delinquente irrecuperabile. Per esempio: ho tendenza alla libidine; frequento persone e ambienti pericolosi; leggo stampa poco qualificata; scrivo in maniera non ortodossa e, soprattutto, sono da tenere d'occhio per certe mie affermazioni in merito alla situazione politica nazionale e internazionale. Però (è confortante) non sono dedito agli stupefacenti e non sono omosessuale. Questo mi tranquillizza, ma resto comunque un individuo pericoloso e la società farà bene a stare in guardia. C'è scritto inoltre che non è chiaro come io riesca a vivere, visto che non ho un mestiere qualificante. Per mestiere qualificante loro intendono: fabbro ferraio, imbianchino, docente universitario, guardiafili, bottegaio, facchino, odontoiatra, poliziotto o altra simile occupazione professionale.
  Ma Sarti Antonio, sergente, non è venuto per la mia scheda e se si accorge che spreco pagine parlando di me, è capace che si arrabbia.

(Loriano Macchiavelli, Ombre sotto i portici, 1975)