martedì 21 maggio 2013

  Achille mi inchiodò per buona parte del pomeriggio. Era stato professore di lettere, giornalista e addetto parlamentare, vagabondo, imbianchino ed elettricista. Pesava più di cento chili, e solitamente si cadeva nell'errore di scambiarlo per un bonaccione: aveva cacciato via non pochi mister muscolo a colpi di stomaco, all'epoca in cui faceva il buttafuori a Galpi. Aveva delle manacce pelose con le dita tozze, e se ne serviva per eseguire delle pregiate miniature in stile Rousseau il Doganiere, ma la sua vera natura traspariva per lo più nei disegni iperrealisti che oscillavano, in funzione del suo umore, tra Hans Bellmer e Aslan. Non aveva che una sola e autentica passione, insaziabile e divorante: le donne. Abitava in un loft vicino all'azienda del gas e possedeva la seconda collezione di gialli della città. La prima era la mia. Parlammo di Eliot, che ambedue consideravamo un autore di culto, di Rilke, di Heidegger e della nuvola radioattiva fuggita dall'Ucraina che aveva fatto una capatina dalle nostre parti.
  - Puttana miseria, - esclamò Achille. - Da voi c'è davvero un gran bel pezzo di carrozzeria. La bambola del centralino... - sorrise con aria sognante. - Perdio, come me la pianterei volentieri sul pennello. Tu no?
  - La bambola in questione misura un metro e settantadue...
  - E scommetto che la tua arma prediletta non è il pennello. - Versò a entrambi un distillato di pera, di quello non proprio in regola con il fisco. Ancora un bicchiere, e il mio pilota automatico avrebbe dichiarato forfait. Piantò i gomiti sul tavolo, mettendo in risalto i suoi muscoli da lottatore. I suoi polsi erano il doppio dei miei. - Cavallier, ma che cavolo ci fai tu, in questo bordello?
  - Sto aspettando che suoni la campanella.

(Hugues Pagan, In fondo alla notte, 1986)  

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